martedì 9 dicembre 2014

Cavalcanti, Calvino e le scalette Santa Chiara (per la terza...)

«Chi è questa che ven, ch'ogn'om la mira
e fa tremar di chiaritate l'a're...»


Cagliari, Scalette Santa Chiara


Italo Calvino (1923-1985), da La leggerezza in Lezioni americane

Vi parlerò di Cavalcanti poeta della leggerezza. Nelle sue poesie le "dramatis personae" più che
personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o
messaggi immateriali che egli chiama "spiriti".
Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d'amore, viene dissolto da Cavalcanti in
entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra
occhi e voce.
Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche:
1) è leggerissimo;
2) è in movimento;
3) è un vettore d'informazione.
In alcune poesie questo messaggio-messaggero è lo stesso testo poetico: nella più famosa di
tutte, il poeta esiliato si rivolge alla ballata che sta scrivendo e dice: "Va tu, leggera e piana
dritt'a la donna mia". In un'altra sono gli strumenti della scrittura - penne e arnesi per far la
punta alle penne - che prendono la parola: "Noi siàn le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e'l
coltellin dolente...". In un sonetto la parola "spirito" o "spiritello" compare in ogni verso: in
un'evidente autoparodia, Cavalcanti porta alle ultime conseguenze la sua predilezione per
quella parola-chiave, concentrando nei 14 versi un complicato racconto astratto in cui
intervengono 14 "spiriti" ognuno con una diversa funzione. In un altro sonetto, il corpo viene
smembrato dalla sofferenza amorosa, ma continua a camminare come un automa "fatto di
rame o di pietra o di legno". Già in un sonetto di Guinizelli la pena amorosa trasformava il poeta
in una statua d'ottone: un'immagine molto concreta, che ha la forza proprio nel senso di peso
che comunica. In Cavalcanti, il peso della materia si dissolve per il fatto che i materiali del
simulacro umano possono essere tanti, intercambiabili; la metafora non impone un oggetto
solido, e neanche la parola "pietra" arriva ad appesantire il verso.
Ritroviamo quella parità di tutto ciò che esiste di cui ho parlato a proposito di Lucrezio e di
Ovidio. Un maestro della critica stilistica italiana, Gianfranco Contini, la definisce "parificazione
cavalcantiana dei reali".
In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non possiamo renderci conto della sua
consistenza ma solo dei suoi effetti; in Dante, tutto acquista consistenza e stabilità: il peso delle
cose è stabilito con esattezza. Anche quando parla di cose lievi, Dante sembra voler rendere il
peso esatto di questa leggerezza: "come di neve in alpe sanza vento". Così come in un altro
verso molto simile, la pesantezza d'un corpo che affonda nell'acqua e scompare è come
trattenuta e attutita: "come per acqua cupa cosa grave" (Paradiso Iii, 123).
Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i
secoli: l'una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose
come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d'impulsi
magnetici; l'altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle
cose, dei corpi, delle sensazioni.
Alle origini della letteratura italiana - e europea - queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da
Dante. L'opposizione vale naturalmente nelle sue linee generali, ma richiederebbe
innumerevoli specificazioni, data l'enorme ricchezza di risorse di Dante e la sua straordinaria
versatilità. Non è un caso che il sonetto di Dante ispirato alla più felice leggerezza ("Guido, i'
vorrei che tu e Lapo ed io") sia dedicato a Cavalcanti. Nella Vita nuova, Dante tratta la stessa
materia del suo maestro e amico, e vi sono parole, motivi e concetti che si trovano in entrambi i
poeti; quando Dante vuole esprimere leggerezza, anche nella Divina Commedia, nessuno sa
farlo meglio di lui; ma la sua genialità si manifesta nel senso opposto. […] Forzando un po' la
contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità corporea anche alla più astratta
speculazione intellettuale, mentre Cavalcanti dissolve la concretezza dell'esperienza tangibile
in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall'oscurità in rapide
scariche elettriche.

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