giovedì 30 giugno 2016

Dell'algoritmo etico

Un interessante articolo di oggi, variazione e proiezione tecnologica del classico dilemma etico "del carrello" (sul quale, ad esempio si può leggere un bel pezzo qui)

Dalle leggi della robotica di Asimov a oggi: agli algoritmi serve un'etica

di Simone Cosimi (da «La Repubblica» di oggi, 30/06/2016)

QUALCHE giorno fa ha fatto molto discutere la notizia sul robot in grado di violare la prima “legge della robotica” teorizzata da Isaac Asimov nei suoi romanzi fantascientifici. Costruito da un ingegnere e artista dell’università di Berkeley, quel braccio robotico è stato infatti programmato per scegliere se ferire o meno un essere umano. L’altro giorno è invece saltato fuori sul web un nuovo video rilasciato da quei cervelloni della Boston Dynamics, l’azienda acquistata da Google nel 2013 dalla quale Mountain View ha tuttavia annunciato di volersi svincolare. Nella clip, al solito raggelante, si vede il nuovo cane robot “Spot Mini” imbastire un tira e molla col “padrone”, chiamiamolo così, intorno a una lattina di birra. In questo come in altri casi non dotati di una plasticità antropomorfa – dagli algoritmi ai codici con cui sono e saranno programmati i miliardi di oggetti connessi fino ai network d’intelligenza artificiale – la domanda di fondo, che tutti conoscono e nessuno riesce davvero a sciogliere, è tuttavia sempre la stessa: cosa accadrà quando l’etica umana verrà scombussolata da sistemi dotati di una serie di regole in contrasto con le nostre?
 
A dire il vero qualcuno l’allarme l’ha lanciato: l’astrofisico Stephen Hawking e il folle imprenditore Elon Musk (Telsa, Space X e così via) si sono per esempio detti molto preoccupati sui rischi legati all’evoluzione dell’intelligenza artificiale. Questioni simili se le pongono in molti, dai filosofi (come lo svedese Nick Bostrom, che insegna a Oxford) alle tante grandi menti impegnate con i colossi dell’hi-tech internazionale (vedi alla voce Ray Kurzweil, in forze a Google), con esiti e posizioni ovviamente diverse. Al solito, la forchetta si muove fra apocalittici e integrati. Forse, però, una delle prime esperienze che ci porranno la questione concretamente di fronte sarà quella delle auto a guida autonoma. È intorno al cuore del codice che forniremo a quei veicoli senza pilota che si giocherà il primo tempo di questa partita. Prima che le altre forme d’intelligenza artificiale possano raggiungere livelli di cui preoccuparsi.
 
Chi salvare in caso d’incidente? Una ricerca pubblicata su Science ha spalancato ancora una volta la questione etica proponendo un quesito di fondo. Anzi, il quesito: “Supponiamo che un’auto senza conducente debba scegliere tra colpire un gruppo di pedoni o deviare e andare a sbattere danneggiando i propri passeggeri. Cosa dovrebbe fare?”. Mettere a rischio la vita dei passeggeri evitando magari una carneficina numericamente più consistente o tutelare gli occupanti ponderando, per così dire, le perdite potenziali? Le risposte dei cittadini statunitensi interpellati sul tema manifestano la frattura morale in tutta la sua profondità. Il risultato è che sarebbe sacrosanto limitare i danni ma d’altronde nessuno si mostrerebbe disponibile a farsi trasportare da un mezzo così programmato. Quasi tutti la penseremmo d’altronde così. Si apre insomma un gioco a somma zero.
 
La questione si muove ovviamente sulla scala valoriale. Per parlare davvero di etica è necessario che le macchine (stradali, robotiche o algoritmiche) siano in grado di produrne una autonoma leggendo e riordinando il mondo. Altrimenti tutto continuerà in fondo a dipendere solo da come le abbiamo programmate. Lo stesso dilemma, in un contesto diverso, si pone per esempio nel caso dei droni armati in grado di identificare autonomamente i bersagli e sparare. Insomma, per molti i veri problemi nasceranno quando i programmatori avranno davvero perso il controllo di ciò che hanno creato. Per altri, invece, la questione rimane comunque alla base: servirebbe un coding etico, cioè un modo di istruire le macchine in maniera che non possano mai arrivare a sciogliere da sole specifiche questioni. Tuttavia rimarrebbe sospeso l’ennesimo quesito: quali sono quelle specifiche questioni?
 
In altre parole, si tratta della responsabilità morale di chi scrive gli algoritmi di cui parla per esempio da tempo David Orban della Singularity University. Affronta la questione sotto diversi punti di vista, da quello finanziario all’internet delle cose. Sì, perché siamo già oggi immersi in una ragnatela di decisioni che ci sfuggono, dal trading delle Borse alle ricerche su internet fino alle mappe intelligenti che decidono come ricalcolare i nostri percorsi. L’auto autonoma sarà tuttavia l’emersione più importante della faccenda perché fisica, concreta, applicata a una dimensione capillare e portatrice di sviluppi complessi: dai software modificabili all’intreccio di normative che incroceranno legislazione, assicurazioni, acquirenti.
 
“La risposta è sì, serve un’etica dell’algoritmo e quell’etica va costruita attraverso un confronto esterno al mondo dei laboratori – risponde Giovanni Boccia Artieri, sociologo e docente di internet studies all’università di Urbino – perché deve mettere appunto in chiaro delle soglie limite sull’utilizzo delle macchine. Dovranno essere soglie universali, che si applichino oltre la singola invenzione o scoperta”. Insomma, oggi sono le driverless car, domani sarà una sempre più pervasiva intelligenza artificiale di cui magari c’innamoreremo, dopodomani chissà: “In fondo, e Asimov ne è solo un esempio, sono temi non così inediti – aggiunge Boccia Artieri – li abbiamo già affrontati. Ci si ripresentano ora che quelle sue tre leggi della robotica hanno motivo di essere implementate perché molte delle cose previste in quelli e altri romanzi sono possibili. Il punto però è uno: stavolta dobbiamo cercare di arrivare prima e non dopo. Dobbiamo sottrarre alla contingenza dei programmatori la risoluzione di queste questioni, per puntare a una visione complessiva dei valori che vogliamo non vengano intaccati dalla dittatura dell’algoritmo”. Anche perché, spesso senza accorgercene, stiamo già correndo il rischio di cambiare i nostri atteggiamenti e le nostre scelte. In un lento lavoro di mutazione: “Nel momento in cui la scarsa trasparenza degli algoritmi che ci aiutano nelle azioni di tutti i giorni diventa la normalità, cioè il nostro quotidiano, abbiamo già smarrito un pezzo dell’etica individuale”.

mercoledì 29 giugno 2016

Vanitas vanitatum et omnia vanitas

Quel che si dice un bel "saggio breve", che sembra scritto per i ragazzi di quarta, ma che è scritto per tutti noi. Tratto dal «Corriere» di ieri, è un estratto del discorso che Claudio Magris terrà giovedì 30 giugno al festival "Milanesiana" tutto incentrato sul tema della Vanità.

PS: sia chiaro, mancano le note, visto che sta su un quotidiano e cita autori notissimi, ma l'impostazione è quella decisiva!
Evert Collier, Vanitas, 1663 

C’è un abisso fra vanesio e vano. Lo dicono pure le definizioni antitetiche che il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia dà della voceVanità. «Fatuo compiacimento di sé e delle proprie capacità e doti; reali o presunte, accompagnato da ambizione, da smodato desiderio di suscitare plauso e ammirazione; eccessiva stima di sé, del proprio valore, della propria origine o estrazione; vanagloria, immodestia, presunzione; superba e sprezzante ostentazione della propria autorità». Credo che, a queste parole, sfilino davanti gli occhi della mente di ognuno di noi volti di gente famosa o di conoscenze solo personali, vip o presunti vip d’ogni genere, interi clan della politica, dei salotti, delle assemblee e, forse più rozzi e impudenti di tutti, della cosiddetta cultura e della letteratura. Ovviamente questa sfilata di pretenziose vacuità si interpone, in ognuno di noi, tra il nostro volto e lo specchio, risparmiandoci e impedendoci di vedere la nostra supponente vacuità.
Ma c’è, nella stessa pagina del Dizionario, un’altra definizione di Vanità: «Precarietà, transitorietà, labilità, caducità, durata effimera, passeggera di ciò che è destinato a perire, della vita stessa». Questa, più che Vanità, è Vanitas e ha poco a che fare con la spocchiosa presunzione; non è l’ostentazione di alcun pregio esclusivo, perché è una condizione universalmente umana ed è il sentimento della stessa. È il senso di uguaglianza di tutti gli esseri umani, soggetti al comune destino di appassire, sfiorire e svanire e di vedere appassire, sfiorire e svanire ciò che desiderano, che amano, in cui credono e che vorrebbero far loro per sempre. Boccaccio parla dello «splendore balenato da questa cosa vana, a dimostrazione che dalla Vanità delle cose della presente vita nasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo sùbito reca seco ammirazione, e poi subitamente si converte in nulla». Petrarca, accennando alla donna amata ormai vecchia, evoca «de’ vostri occhi il lume spento; / e i cape’ d’oro fin farsi d’argento».
Ma è soprattutto il Barocco a sentire — e ad amare, col senso di amare invano — le cose fugaci votate a passare e a morire. Protagonista e motore della Vanitas, per Marino è il tempo: «Un lampo è la beltà, l’etate è un’ombra, / né sa fermar l’irreparabil fuga [---]. Amor non men di lui veloci ha i vanni, / fugge co’ l fior del volto il fior degli anni». La donna è rosa che sfiorisce, il sole è vissuto e ammirato quando cala: «Così riluce il sol più dolcemente — dice un sonetto di Fabio Leonida - e meglio si vagheggia, allor che scende, / passato ‘l mezzo dì verso Occidente». La Vanitas non è solo malinconia e stanchezza, ma è anche e forse soprattutto intensità di desiderio, tanto più appassionato quanto più consapevole della caducità del proprio oggetto e di se stesso. «Così trapassa al trapassar d’un giorno — canta l’uccello dalle piume variopinte nella Gerusalemme liberata — della vita mortale e il fiore e il verde; / né, perché faccia indietro april ritorno / si rinfiora ella mai, né si rinverde. / Cogliam la rosa in sul mattino adorno / di questo dì, che tosto il seren perde; / cogliam d’amor la rosa; amiamo or quando / esser si puote riamati amando».
Questo senso della Vanitas pervade la letteratura barocca di tutta Europa; per fare solo un esempio si pensi a Góngora. «Mientras por competir con tu cabello / oro bruñido al sol relumbra en vano…, mentre per emulare i tuoi capelli / oro brunito al sole splende invano» e la poesia si conclude: «Godi collo, capelli, labbro e fronte, / prima che quanto fu / in età dorata / oro, giglio, garofano, cristallo, / non soltanto in argento o viola tronca / si muti, ma tu e tutto unitamente / in terra, fumo, polvere, ombra, niente – en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada». C’è pure un pathos della Vanitas, «labirinto» — diceva Foscolo, contestandolo — in cui dobbiamo necessariamente perderci». La Vanitas può tuttavia non solo ispirare struggente amore per le cose amate ed effimere, ma diventar essa stessa oggetto e sostanza d’amore, come accadrà soprattutto nel Decadentismo. Amare non tanto qualcuno o qualcosa, ma l’amore stesso, l’amore vano; forse pure la parola, la musica melodiosa della parola «vano» — il «desir vano» di Ariosto, melodia delle sirene del cuore.
Un grande esempio di questa poesia della Vanitas è Pascoli. Egli ama le nuvole vane forse solo perché sono vane, il suo desiderio va alla loro lieve inconsistenza, alla loro rapida caducità. Nello stupendo Ultimo viaggio deiPoemi conviviali Odisseo, giunto all’isola Eea, l’Isola di Circe, si addentra tra i boschi e le macchie, seguendo il suono della cetra di Femio, l’aedo, ma trova quest’ultimo disteso su un mucchio di foglie secche, morto. È il vento che fa suonare la cetra appesa ai rami di un albero, «così mesto il canto / n’era e così lontano e così vano». È la più grande celebrazione poetica di ciò che è vano e appare l’essenza stessa della poesia, oggetto di un amore indicibile, che non solo non si può raggiungere ma che è amore solo perché è potenziale, non ancora detto, non oggettivato: «l’amore che dormìa nel cuore, / e che destato solo allor ti muore». Si ama solo finché non si ama qualcosa o qualcuno di determinato, finché si ama la Vanitas, il desiderio. Un’eco che risuona in tanti poeti successivi, sino ai giorni nostri.
Ben altra è la Vanità di cui canta il più grande dei suoi poeti e uno dei più grandi poeti in senso assoluto, Leopardi. La leopardiana «infinita Vanità del tutto» non è il morbido o struggente fascino del fumo in cui dilegua ogni cosa e ogni sentimento. È l’asciutta, oggettiva, altissima poesia di una ferma constatazione del nulla. «Delle cose create, non rimarrà pure un vestigio, ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empiranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi l’essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi». Sia o no tutto questo effetto del «brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera», si tratta della più alta espressione dell’universale diventar nulla in tutte le cose.
Molto è stato scritto sul pessimismo leopardiano; pochi anni fa in un incisivo, assai notevole libro di Andrea Rigoni, Leopardi diviene la chiave che introduce al tema generale e variegato della Vanità, cui il libro esplicitamente si intitola, Vanità. La prospettiva di Rigoni è vasta e include numerosi autori; se c’è la sublime Vanità di Leopardi, c’è la Vanità superficiale e facile di chi reagisce all’inconsistenza del mondo e della vita identificandosi con essa, facendone un vezzo o un distintivo di raffinata intelligenza, votandosi alla futilità con falsa civetteria, autoconvincendosi di snobbare e disprezzare la mondanità cui smania di avere accesso, fingendo con se stesso di ridacchiare delle élites in cui in realtà brama di far parte, credendosi il Narratore dellaRecherche affascinato dai Guermantes ma incapace, a differenza dal narratore proustiano, di capire che i Guermantes sono sin dall’inizio, già da sempre, i Verdurin.
Nel sentimento e nella rappresentazione leopardiana della Vanità del tutto si avverte, asciutto e classicamente dominato, il profondo dolore per questa Vanità, l’impossibile desiderio — percepito come vano ma non perciò meno doloroso — che la vita sia diversa. L’altissima poesia leopardiana della Vanità del tutto non ammette né struggimenti per la Vanitas né civetterie salottiere. «Vaghe stelle dell’Orsa io non credea…». Esattamente l’opposto del pessimismo compiaciuto e soddisfatto, e dunque filisteo, di un Cioran, pienamente a suo agio nella proclamazione del nulla e abile nel mascherare la gratificante banalità in una maschera di Vanità che, proprio presentandosi volutamente e anzi esibendosi volutamente come tale, suggerisca e faccia supporre dolorose profondità dissimulate nel fatuo cinismo della conversazione mondana.

domenica 26 giugno 2016

L'invenzione del Medioevo

All’inizio furono Ludovico Ariosto, Hieronymus Bosch e Walter Scott.
Da ultimi sono arrivati Il Signore degli Anelli e Il Trono di Spadefilm e videogiochi: Dungeons and Dragons, Ghost Rider, Dante’s InfernoCosì sono cambiate la percezione e la fascinazione verso una stagione che ha rivoluzionato architettura e urbanistica, commerci e professioni, fino agli studi (universitari) e alla stessa forma mentis della società. Un bell'articolo (davvero al confine con il saggio) di Marcello Simoni («Corriere della Sera - La Lettura», 26 giugno 2016)


Se parliamo di Medioevo, l’equivoco più insidioso — quello capace di far rizzare i capelli a qualsiasi storico — consiste nell’attribuire i valori più autentici di quest’epoca alla narrativa fantasy. Accade soprattutto di questi tempi, galeotto il successo di serie televisive e cinematografiche che hanno riportato in auge non solo il fascino dei cosiddetti secoli bui, ma anche una sottocultura popolare basata sulla moda gotica, sulle leggende del Graal e sui giochi di ruolo. Ingigantendo l’equivoco. Benché saghe di grande fascino come Il Signore degli Anelli e Il Trono di Spade si avvalgano di ambientazioni appartenute a epoche passate, le utilizzano infatti per plasmare una fiction in cui la verosimiglianza si indebolisce e i riferimenti storici esprimono soltanto un’idea imprecisa di tempi remoti. Per inciso, i romanzieri e i registi contemporanei non sono i primi ad aver operato un simile esperimento. Basti pensare a Ludovico Ariosto, a Matteo Maria Boiardo, a Luigi Pulci e agli epigoni del ciclo bretone e carolingio. Il conte Orlando con la sua spada incantata, il gigante Morgante, mago Merlino e re Artù vivono nel nostro immaginario da circa ottocento anni, quasi quanto la favola di Cappuccetto Rosso.
Allo stesso modo, i draghi della conturbante Daenerys Targaryen di R. R. Martin e quelli del film post-apocalitticoReign of Fire con Christian Bale nascono dalle remote icone di san Giorgio «cavaliere» intento a trafiggere il dracoserpentiforme, dapprima senza ali e poi con quelle di pipistrello, a imitazione dei più antichi demoni cinesi.
Se poi ci allontaniamo dalla fiction e prendiamo come riferimento il quotidiano, ci rendiamo conto che il nostro immaginario collettivo, forgiato da genealogie di figure eroiche e di mostruosità, continua ad attingere senza sosta dalle pitture visionarie di Hieronymus Bosch, per mezzo del quale il bestiario medievale s’intreccia alle diavolerie alchemiche che ancora oggi attribuiamo all’evo di mezzo. Eppure non tutto è vero. Le streghe, per esempio, appartengono più alle ossessioni dell’età moderna che a quelle del Medioevo (durante il quale si bruciavano per lo più gli eretici), mentre l’Inquisizione (romana e spagnola) attraversa il suo periodo più cupo tra il Cinque e il Seicento. Attenzione pertanto a distinguere il Medioevo vero da un suo miraggio idealizzato. E attenzione, per dirla tutta, al carrozzone «protomassonico» dei nuovi Templari, degli Illuminati, del Priorato di Sion e compagnia bella, che per la maggiore consiste in un revival di elementi morti e sepolti, interpolati o addirittura inventati di sana pianta.
Torniamo quindi all’equivoco iniziale, ovvero alle ragioni che oggigiorno sovvertono la percezione del Medioevo, banalizzandolo a una partita di Dungeons and Dragons. Non possiamo ricercarne le origini nel fantasy, né tantomeno nella creatività di un qualsivoglia autore contemporaneo intento a mettere in scena castelli tenebrosi o macabre pestilenze. Più che cause scatenanti, queste sono conseguenze di un effetto farfalla proveniente dall’Ottocento.
È da questo secolo, infatti, che giunge a noi la fascinazione narrativa dell’età feudale, strumentalizzata dal romanzo storico per dare voce agli ideali del Romanticismo. Il capostipite di questa tendenza è Ivanhoe di Walter Scott (1819), seguito da Adelchi di Manzoni (1822) e da Notre-Dame di Victor Hugo (1831). Queste opere rappresentano il punto d’origine di un delta letterario che, aprendosi, sfocia nell’attuale babele dell'historical fiction. E si badi bene, i loro personaggi incarnano la stessa mentalità che vibra nel melodramma wagneriano di Tristano e Isotta e nelle saghe nordiche del popolo germanico. Sono più patriottici che verosimili, più «romantici» che medievali.
Non è soltanto questo, tuttavia, il retaggio che il Medioevo lascia al XXI secolo. Non quello autentico, per lo meno. Potrei dare enfasi a questa affermazione descrivendo l’impianto urbanistico di borghi antichi come Assisi, Urbino o Soncino, alla presenza di edifici portentosi come il Duomo di Ferrara, Castel del Monte, la Sagra di San Michele. Preferisco tuttavia andare alla ricerca di un Medioevo più «sottile», quello che permea la vita di tutti noi ogni volta che ci mettiamo a ragionare. Perché è qui che affondano le radici della nostra forma mentis. Dobbiamo essere grati alle scuole di Toledo e del sud Italia, meritevoli d’aver salvato le opere di Aristotele e di altri filosofi dell’antichità, traducendoli dall’arabo dopo secoli di oblio. Ma siamo grati pure a teologi della levatura di Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e Pietro Lombardo, che assimilando quel sistema di pensiero lo trasmisero al Medioevo biblio-monastico — da Montecassino a Cluny, da Pomposa a San Gallo — prosperato fino ai nostri giorni.
La forma mentis di cui parlo, tuttavia, vanta anche un’origine laica sviluppatasi in seno al Duecento, di pari passo all’affermazione di un nuovo ceto, «borghese», rappresentato da schiere di mercanti, notai, medici e banchieri sempre più istruiti e consapevoli di sfilacciare le maglie del vecchio ordinamento sociale fino ad allora suddiviso in chierici, guerrieri e contadini. In un simile contesto — e solo in Occidente — nascono le università, che accrescendo nel corso dei secoli la loro importanza formeranno generazioni di studenti fino a plasmare il volto del mondo odierno.
Non fu da meno l’apporto di singoli pensatori come Michele Scoto, che nel XIII secolo frequentò lo Studium di Bologna, di Parigi e di Oxford per poi diventare magusmedicus e consigliere presso Federico II. Tenendosi sempre in contatto con il mondo arabo, egli fu impegnato a saziare la smisurata curiosità dell’imperatore svevo. A tal fine scrisse un Liber introductorius che descriveva la natura dei vulcani, la profondità dei mari e, al contempo, vagheggiava su macchine in grado di esplorare gli abissi e di innalzarsi fra le nuvole. Il più grande apporto di questo magus al pensiero contemporaneo fu però nel campo dell’astronomia, che all’epoca veniva considerata un tutt’uno con l’astrologia e importante quanto la teologia, dacché insegnava a cogliere i segni di Dio nella disposizione delle costellazioni. Ebbene, Scoto fu il primo a definire il movimento degli astri rigettando lo schema tradizionale delle stelle fisse, paragonandolo a una moltitudine di carri che solcano i cieli seguendo delle orbite ellittiche.
L’evo di mezzo è giunto fino a noi anche sotto altre, impensabili forme. È a quei tempi che appartengono l’invenzione dell’orologio, degli occhiali da vista, del gioco degli scacchi, della polvere da sparo, del rosario, dei tarocchi, del mulino a vento e persino del gioco del calcio (in Francia detto soule). Grazie ad autentici geni come Papa Silvestro II e Leonardo Fibonacci importammo l’uso dei numeri arabi, la geometria e l’algebra. Sempre nel Medioevo si può riconoscere l’infanzia dei comuni (sorti a partire dal Duecento) e, secondo Le Goff, della stessa Europa.
Esiste d’altro canto un Medioevo popolaresco, ancora riconoscibile in famose ricorrenze come il carnevale di Ivrea o la Corsa dei Ceri di Gubbio (tenuta ogni anno il 15 maggio in ricordo dell’assedio di Federico Barbarossa), ma anche un Medioevo sacro. Da quest’ultimo provengono la festività del Corpus Domini, l’impostazione della preghiera a mani giunte, la concezione del Purgatorio e il culto di santi ancora molto venerati, come Francesco d’Assisi, Benedetto da Norcia e Antonio da Padova. E Nicola di Mira, le cui reliquie furono traslate dalla Turchia a Bari nel 1087 in seguito a uno di quegli avventurosi furta sacra descritti nei legendarii vergati dai monaci amanuensi. Da allora la figura del patrono barese si è scissa, dando origine da un lato — per via nordica — alla figura di Santa Claus e dall’altra a quella di Cola Pesce, tanto cara al trovatore tolosano Raimon Jordan e, più di recente, a Italo Calvino.
È proprio Calvino, con il suo Medioevo surreale e fiabesco parallelo a quello di Queneau (I fiori blu), a far approdare sui nostri lidi il volto di un’epoca fatta di curiosità, labirinti e misteri. Si pensi alla trilogia degli «antenati» e al Castello dei destini incrociati, ma soprattutto alle Città invisibili. È proprio tra queste pagine che incontriamo un Marco Polo disincantato e sognatore, un semiologo dell’effimero che racchiude dentro di sé lo spirito del Marco Polo realmente vissuto, insieme all’affabulazione di Rustichello da Pisa, lo scrittore che conobbe in carcere il mercante veneziano e probabilmente lo aiutò a mettere nero su bianco, nel Milione , le sue esperienze e le sue fantasie.
È precisamente da questo, dall’ambizione narcisistica di scrivere di noi stessi tramutando l’io vero in io narrativo, consapevoli che ciascuno di noi sia diverso dal prossimo, proprio da questo, dicevo, che scaturisce la rivoluzione antropologica del pensiero medievale. Quella che più di ogni altra cosa sopravvive dentro di noi contemporanei: la libertà di essere ciò che vogliamo, a costo di reinventarci, di mentire, di scavalcare i confini che separano il reale dalla fantasia. Oppure di calarci nei baratri più profondi e spaventosi dell’oltretomba come fece Dante, padre delle visioni più sublimi, dell’arte del simbolo ma anche delle nostre paure ultraterrene. Neppure l’Alighieri, d’altro canto, è sfuggito all’odierno gusto del kitsch che fagocita ogni cosa e la sputa trasmutata, o riciclata, quasi ci trovassimo davanti a uno di quei Gorgoneion intenti a masticare i dannati nei Giudizi Universali. Risorto infatti in un celebre videogame, Dante’s Inferno, fa il verso a un Medioevo visionario, ferocissimo e tutto sommato godibile.

Del resto, in un gioco distorto che ha visto cadere quest’epoca tanto bistrattata persino nelle mai di Sam Raimi (L’armata delle tenebre), non ci si stupisca troppo di veder comparire tra gli albi a fumetti anche i cavalieri delle apocalissi gotiche. Ora cavalcano destrieri d’acciaio rombante e si fanno chiamare Ghost Rider, ma non lasciatevi ingannare: come accade da secoli, sono avvolti dallo zolfo delle leggende medievali.


giovedì 23 giugno 2016

Compleanno (pure) dell'Orlando furioso

Riflessioni su amore, caos e spirito nazionale nel poema di Ariosto che compie 500 anni

Noi italiani siamo folli come Orlando 




ALBERTO ASOR ROSA 
«La Repubblica», 21 giugno 2016

Nelle scorse settimane è comparsa più volte, sui giornali e nei media, la data del 22 aprile 1616. Per forza: si tratta del giorno in cui sono scomparsi, pressoché contemporaneamente, William Shakespeare e Miguel de Cervantes, due dei più grandi scrittori europei dell’età moderna. Ma esattamente un secolo prima (coincidenze prodigiose della storia), — e dunque il 22 aprile 1516, — appariva, presso un modesto stampatore della provincia ferrarese (forse in 1300, forse 2000 copie), la prima edizione dell’”Orlando furioso” di Ludovico Ariosto, un altro dei capisaldi della letteratura europea moderna. Mi pare che poco (o niente?) se ne sia parlato. 
La stampa del ’16, sepolta da un semisecolare oblio, si può leggere nella bella edizione critica a cura di Marco Dorigatti (Olschki, 2006). È in quaranta canti, tutti in ottave, secondo la tradizione del poema cavalleresco italiano. L’ultima, quella del 1532, è invece in quarantasei canti, e si può leggere nell’edizione in due volumi a cura di Lanfranco Caretti, e con una Presentazione di Italo Calvino (Einaudi, 1992). Per avere un’idea di cosa stiamo parlando, si pensi che la stampa maggiore (quella del ‘32) è composta da 4822 ottave; i versi sono 38.576: la Commedia di Dante, ne aveva, diciamo così, appena 14.233. La stampa del ’16 si distingue da quella del ’32, oltre che per la diversa estensione, per molti altri aspetti, — cosa che ha spinto alcuni degli interpreti più recenti a parlarne come di un’opera in sé, diversa da quella finale. Non abbiamo il tempo né lo spazio per soffermaci su queste particolarità. Vorrei invece attirare l’attenzione su questioni più generali.

L’Orlando furioso è una delle dieci grandi opere in cui si rispecchia di più l’identità nazionale italiana. Nasce nel cuore pulsante del cosiddetto Rinascimento italiano. Narra, seguendo le orme di una ormai lunga tradizione, le gesta di cavalieri e paladini cristiani per difendere Parigi e la Francia dall’aborrita invasione degli Arabi e dei musulmani. Però piega l’ispirazione iniziale e tradizionale a una nuova visione del mondo, nella quale ha un posto centrale l’amore (antecedente immediato ne è, appunto, l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo). Ma questo non è sufficiente alla poderosa spinta innovativa del cavaliere (anche lui) e cortigiano Ludovico Ariosto. Per cui la carica amorosa prodigiosa del protagonista Orlando, nel momento in cui sia tradita e disillusa, si scarica a un certo punto in follia, altrettanto prodigiosa ed estrema. All’immaginario dei creatori letterari europei non basta dunque il primo Orlando, eccezionale guerriero e simbolo della difesa della cristianità (Chanson de Roland, fine del secolo XI). Non basta l’Orlando “innamorato”. Sorge sulla scena letteraria l’Orlando “furioso”, ed è tappa di cui pochi, dopo potranno fare a meno.

Non è sufficiente, per render conto di un processo che attraversa l’intera Europa e arriva fino a noi, il grande esempio del “cavaliere dalla trista figura”, del paladino fuori tempo e fuori norma “Don Quijote de la Mancha”? Del resto, che non si tratti di un’invenzione dello storico-critico qui sproloquiante, lo dimostra il riconoscimento che lo stesso Cervantes tributa al suo più illustre predecessore. Quando il curato e il barbiere penetrano nella biblioteca di Don Quijote e gettano dalla finestra affinché siano bruciati i più di cento libri di cavalleria, alla cui lettura si deve la follia dell’”hidalgo”, il curato risparmia, insieme a pochi altri, il “romanzo” di Ariosto, con parole che non lasciano dubbi sull’alta considerazione che Cervantes nutriva per lui: «Ludovico Ariosto, al quale, se lo trovo che parla in un’altra lingua che la sua, non porterò rispetto alcuno, ma, se parla nel suo idioma, me lo metterò sopra il capo» (come una vera e propria onorificenza). Allora: l’illimitato amore di Orlando per Angelica, figura femminile centrale ma sfuggente; il suo uscir di senno, quando il paladino scopre che la sua amata si è congiunta carnalmente con un inaspettato antagonista, Medoro, che per giunta è un soldato semplice, “un povero fante”;  la salita di Astolfo alla luna, per recuperare a Orlando la ragione perduta, e scoprire così che lì di senno umano “se ne trova una gran quantità”, mentre di pazzia ovviamente non c’è traccia, perché essa “sta qua giù, e non se ne parte mai” (considerazioni che forse potrebbero valere anche per i nostri casi): tutto questo, e le innumerevoli altre storie di amore, disperazione, tragedia e follia, che costituiscono la trama oltre ogni immaginazione multiforme del poema, convergono a costruire la descrizione di un sistema contraddistinto della non unitarietà e non armonicità del cosmo, sia umano sia naturale.


Ha già ragionato Massimo Cacciari su queste colonne (il 5 maggio scorso) del ruolo giocato da follia e infrazione nella prospettiva umanistica italiana ed europea, un tempo interpretata e valutata sui binari di una rigorosità razionalistica senza cedimenti. L’Elogio della follia (ovvero Encomium moriae) di Erasmo da Rotterdam fu tradotto e pubblicato in Italia dai Giunti di Firenze tra il 1518 e il 1519. Credo di aver dimostrato qualche anno or sono la presenza di motivi erasmiani in Guicciardini, tradizionalmente ancorato a interpretazioni tutte politicistiche e strettamente pragmatiche. Non esiste motivo per credere che la stessa cosa sia accaduta all’Ariosto, il quale, intorno al 1506-07, aveva raggiunto un livello molto avanzato di composizione del suo poema.
Ma questo rende ancor più significativo il suo contributo alla gigantesca traslazione della cultura europea verso i nuovi lidi. Con questa ulteriore specificazione: e cioè che Ariosto agisce, con sovrana genialità, sul terreno non del pensiero ma dell’immaginazione e della poesia. L’Orlando furioso non è un trattato filosofico, come potrebbe finire per apparire se insistessimo troppo sulle sue «tematiche» e sui suoi «contenuti». È una prodigiosa «storia cantata», la quale, soltanto perché è tale, può permettersi di debordare oltre i confini della tradizione, mantenendo tuttavia intatta, e anzi moltiplicandola, l’unità dell’insieme. Se si prova a leggere le sue ottave una dietro l’altra d’un fiato e ad alta voce, — come quando doveva leggerle Ariosto ai suoi Sovrani e alle sue Signore, — si può capire più facilmente cosa intendo dire.
Per il resto, basti dire che tra gli ammiratori più «sfegatati» dell’Orlando furioso ne troviamo anche qui uno imprevedibile (e imprevisto) come Niccolò Machiavelli: «Et veramente il poema è bello tutto, et in molti luoghi è mirabile»; e poi Galileo Galilei, che nelle Postille all’Ariosto ne esalta il mirabile talento inventivo e fantastico, contrapponendolo alla smunta programmaticità ideologica e religiosa (secondo lui) di Torquato Tasso; e Italo Calvino, che, come spesso gli accade, rimette insieme le cose sparse, utilizzando le sue immense letture e capacità d’interpretazione: «Possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di forza della nostra letteratura ». Chi altri fra i nostri classici e scrittori, passati e presenti, italiani ed europei, potrebbe vantare tre estimatori come questi? 

Qui, qualche lettura sulle meravigliose illustrazioni del Furioso, da Doré in poi. 




lunedì 20 giugno 2016

Libri per la (futura) quinta

Anche per la quarta/quinta, una selezione di libri fortemente consigliati per le letture estive, utilissimi per l'anno prossimo, ma anche inutilissimi come tutta la letteratura, quindi fondamentali per vivere meglio.

In ordine cronologico:

Millesettecento, un libro a suo tempo pericolosissimo, istigatore al suicidio e ai comportamenti deviati per i giovani: il grande filosofo e scrittore Goethe e i Dolori del giovane Werther (ampiamente saccheggiato da Foscolo, e fondamentale per capire alcune cose del Romanticismo, dell'Europa e di noi stessi).


Ottocento, seconda metà: un romanzo francese epocale, che descrive benissimo la condizione del proletariato di miniera, il mostruoso lavoro sottoterra, i moti operai, gli scioperi, i ricatti dei padroni, la violenza, il consenso, l'alienazione umana di quegli (?) anni. Emile Zola, caposcuola del Naturalismo francese (da cui prende le mosse il nostro Verga), Germinale, che nel calendario della Francia rivoluzionaria era il mese della rinascita della natura, in primavera. 



Mentre in Europa il movimento operaio lotta e si definisce (perde, e qualche volta vince), negli Stati Uniti un genio di nome Edgar Allan Poe inventa il genere giallo, horror, thriller psicologico. Se ancora non li avete letti, una selezione dei suoi racconti può cambiarvi la vita.


Un classico moderno che non mi stanco di suggerire, per chi se lo fosse perso (ma l'anno prossimo lo riaggancia anche con prof. Cuccu!) il mitico 1984 di Orwell, la più classica e potente delle distopie.


Ancora distopie, non più (tanto) politiche quanto tecnologiche, il devastante progetto di un Mondo nuovo di Aldous Huxley; il titolo è tratto da The Tempest di Shakespeare: «How beauteous mankind is! O brave new world that has such people in't!», ironia e angoscia vi attendono!


Ultimo romanzo distopico, ne abbiamo parlato un paio di volte: il premio Nobel Saramago vi chiude dentro un manicomio dismesso insieme a una città di ciechi, e vi fa vedere tutta l'umanità.


Un libro della scrittrice Harper Lee (1926-2016) che ha fatto epoca, il cui titolo originario è To kill a Mockingbird, cioè "uccidere un tordo", fare cioè gesti violenti senza motivo, o motivati in modo pretestuoso, ingiusto, inumano. Proprio come accade quando ci sono razzismi, pregiudizi, paure infondate verso l'altro, e quell'altro è percepito come una minaccia, perchè non lo si conosce ma lo si disprezza come se fosse poca cosa. 
In italiano si è scelta la metafora del Buio oltre la siepe, e superate le prime 50 pagine, a volte faticose, si scopre - lì oltre la siepe - un mondo indimenticabile. Ambientato negli anni della Grande Depressione, in Alabama, la storia di due bambini, un padre "eroe", un a comunità nera emarginata, un potenziale assassino, e un uomo segregato. 




Per chiudere (anche se ho proposto anche Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, o Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, o ancora il bellissimo Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, tutti consigliatissimi), l'unico italiano, il più recente e il meno "scolastico", perchè non potete non conoscerlo. Zerocalcare, di cui potete assaggiare qualcosa nel suo arcinoto blog (e basterebbe, partendo dai più vecchi per entrare in sintonia con lo stile e i suoi temi preferiti), che ha pubblicato un interessante e attualissimo reportage da Kobane, città nell'attuale Kurdistan siriano, assediata dall'ISIS (e non solo).




E buone vacanze, divertitevi e leggete tanto che fa bene!

venerdì 17 giugno 2016

Libri per la (futura) seconda

Ecco la rosa dei libri che vi ho portato a scuola l'ultimo giorno di scuola. A questi si aggiungono tutti quelli che già vi avevo consigliato qui, più tutti quelli che vorrete leggere per conto vostro, anche spinti dalle letture che a scuola vi sono piaciute (ad esempio, chi si è divertito con Dieci piccoli indiani, può andare a cercarsi altri gialli di Agatha Christie o contemporanei!).
E quindi...


Iniziamo dal più classico: Poe è uno dei più grandi, famosi, geniali scrittori di ogni tempo. Ha letteralmente inventato il racconto horror, thriller psicologico e giallo (suo il primo detective della storia, Auguste Dupin), sconvolgendo milioni di lettori dall'Ottocento in poi. Sempre attuale e sempre grande, è un mito della letteratura americana di cui parlerete in quinta liceo, ma deve far parte del bagaglio culturale medio di ogni uomo e donna che sappia leggere!



Un altro meraviglioso libro, finalmente pubblicato con una copertina degna, disegnata dal (mio) amatissimo illustratore Gipi. L'inizio non cattura immediatamente, sembra mantenere le distanze con il lettore, lo inquieta, ma vale la pena di stare al gioco dell'autore, sforzarsi un po', e si viene davvero ricompensati.
Ci sono amicizia, avventura, suspense e molto altro, perchè è la storia di un gruppo di scampati a un incidente aereo, tutti bambini che venivano trasportati un un altro paese, che devono organizzare una vita indipendente e autonoma in un'isola (apparentemente) deserta.
Scritto subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e naturalmente non a caso, è il romanzo che, come ha scritto Stephen King, per primo parla del mondo dei bambini e dei ragazzini in modo realistico, e perciò non nasconde cattiverie, ipocrisie, violenza e sopraffazione, che sembrano il più vero destino dell'umanità. Si legge e si pensa. Indimenticabile!


Un libro decisamente più semplice e accattivante, da portarsi anche al mare perchè fatto di brevi capitoli che conquistano subito (e da prestare agli amici)! 
Il protagonista, che ci racconta la sua storia dal suo punto di vista, è qualcuno che non è mai lo stesso, neanche per due giorni di seguito. Si chiama solo A, come la prima lettera dell'alfabeto. A si sveglia ogni mattina in un corpo diverso, è una specie di anima vagante, qualcosa di più di un fantasma. Però A è vivo, pensa, cresce, prova delle emozioni, e all'inizio della storia, A scopre che può anche innamorarsi. Rihannon è una ragazza dolce e riservata, succube del proprio fidanzato, il classico bulletto menefreghista. Quando A si incarna in quest'ultimo, il colpo di fulmine è servito. Riuscirà A a svelare il segreto della propria esistenza a Rihannon, e a trovare un modo affinché lei ricambi il suo amore?


Racconti lunghi, pieni di bellezza, emozione, riflessione e intelligenza narrativa. 
Scritti benissimo, in grado di conquistare (quasi, c'è sempre un quasi) tutti, questi quattro pezzi del grande Stephen King non sono spaventosi con altre sue cose, ma non lasciano certo indifferenti. 
"Stagioni diverse" perchè ognuno dei quattro racconti è legato tematicamente a una delle stagioni dell'anno. Ognuno dirà quale racconto/stagione ha preferito: io il primo, ambientato in carcere, storia di libertà e solidarietà tra uomini, «l'eterna primavera della speranza», e il terzo, «ricordo di un'estate» passata, storia di ragazzi che scoprono la morte e la complessità della vita adulta. 
Facile, vista la potenza della trama, trarne dei bei film, che magari vorrete vedere prima o dopo la lettura. Meglio dopo...


Cambiando ancora genere, un libro qualsiasi tra quelli del bravissimo scrittore per giovani adulti Aidan Chambers, avete libera scelta
Sono sì libri destinati a un target definito, e perciò in linea con molte cose che leggete abitualmente (non mancano amore, malattia, morte, e i protagonisti sono sempre ragazzi della vostra età che abitano in città moderne e ai nostri tempi, per cui è facile e "obbligatorio" immedesimarsi), ma la qualità della scrittura e la cura per gli intrecci è eccellente, e se i piacciono questi generi mi interesserà avere il vostro parere, perchè io non li ho letti tutti. 
Piace molto, piace sempre, premiatissimo ma non "furbetto" come altri, e molto intenso per davvero. 


Ultimo suggerimento, ne avevamo parlato un po' di settimane prima della fine della scuola. 
Solo per che ha i nervi saldi: Linus, sedici anni, insieme a quattro adulti e una ragazzina di nove, si trova intrappolato in un bunker, uno spazio claustrofobico da cui nessuno può fuggire. Sono stati rapiti da qualcuno che si è presentato loro ogni volta in modo diverso e non sanno perché sono stati scelti. Spiati da decine di telecamere e microfoni perfino in bagno, dovranno trovare un modo per sopravvivere. Bunker Diary è un incubo da vivere sulla propria pelle attraverso le pagine del diario di Linus, in un’escalation di umiliazioni, meccanismi perversi e violenza fisica e psicologica innescati “dall’uomo di sopra”…
Io ancora non l'ho letto, vi mando un avanscoperta ma pare sia clamoroso. 

Buona lettura, buona estate e arrivederci a settembre! 

Violenza, divinità triviale

Se il link resta attivo, vi segnalo un bell'articolo - ma quasi, se eliminiamo i riferimenti più attuali e rinforziamo i rinvii con delle note stringenti - un eccellente "saggio breve".
E' di Sergio Givone, docente di Estetica, ed è pubblicato su «L'Espresso» di questa settimana, fresco fresco. Argomento: la violenza, «divinità infernale» ma pure «triviale e comune». Non molto estivo ma decisamente attuale, purtroppo.


mercoledì 8 giugno 2016

Virtù e fortuna, la felicità a portata di mano

Trama del Festival Leggendo metropolitano, e bellissimo post


Cos’è la dignità per l’uomo e cosa fa il mondo più giusto e coeso? 
La virtù, se rimane parola vuota, moraleggiante e astratta, ci rende davvero più felici? 
La nostra civiltà si fonda da sempre sull’equilibrio tra virtù e fortuna. 
Oggi si assiste ad una sovrastima della fortuna a discapito della rettitudine e della responsabilità. 
La nostra felicità è sempre meno legata al lavoro, faticoso e appagante, con cui raggiungere gli obiettivi. 
Sempre più legata al gioco, all’azzardo. 
L’invadenza cronica dei media nella vita dell’individuo è sotto lo sguardo di tutti: una comunicazione sempre più ostaggio di facili promesse, mirabilimiraggi, con la complicità di Stati che gridano al facile arricchimento tramite lotterie, slot machine e grattaevinci. 
Siamo certi che non risieda (anche) in questo meccanismo la crisi che investe la società odierna? 
A questo nuovo modo di pensare il mondo noi non crediamo. Siamo convinti che la felicità debba essere il frutto della fatica, del lavoro, della capacità di ascoltare l’altro e di pensare alla collettività nel suo insieme. 
Il resto è solo una falsa rappresentazione della realtà che ci circonda. 
Crediamo che la filosofia della fortuna a tutti i costi debba essere considerata alla stregua della magia, della cabala e dell’astrologia. 
Questo convincimento trova nell’articolo 1 della nostra Costituzione la sua massima espressione: la Repubblica Italiana si fonda sul lavoro, sul merito e sulla responsabilità. 
Noi rilanciamo una nuova era di impegno personale - poiein - attraverso una politica per il lavoro, che favorisca una stagione virtuosa di consapevolezza, sia sul piano individuale che collettivo, per far fronte alla crisi economica e morale. 
Senza attendersi aiuti dall’alto o credere alle promesse di facili introiti per consolidare misere e ipocrite rendite di posizione. 
Un libero arbitrio sostenuto da un metro etico. 
Un percorso verso una sorte morale che ci veda protagonisti e che, insieme, preservi la fragilità del bene. 
La cultura, le scienze, la poesia e la letteratura in particolar modo, essendo un attentato alla ragionevolezza, avendo un potenziale rivoluzionario, ci aiuteranno a sostenere lo sforzo, a porci le giuste domande e a respingere le risposte preconfezionate, violente e gratuite della propaganda di regime, della filosofia degli slogan. I poeti e gli scrittori possono e debbono diffondere il panico nel mondo, lasciare la posizione compiacente da educati vecchi signori, rischiando la vita e giocandosi la pelle. 
Con coraggio, riprendendosi un po’ di teppismo e non accettando di essere solo un passatempo, la letteratura può sostenere il mondo in questo percorso ed essere di nuovo parola incandescente e non coperta per il caminetto. 
La letteratura funziona per contagio come tutte le passioni, in ciò risiede la sua potenza, solo così può raggiungere questo obiettivo. 
La politica e la pubblicità attivando diverse dinamiche, attraverso la persuasione, sembrano essere inefficaci. Consci del fatto che spesso la cultura è una fortezza dietro cui si cela il pensiero precostruito, ci rivolgiamo alla vera letteratura che, invece, attacca quella fortezza e ci permetterà di raggiungere quella felicità che è sempre a portata di mano. 
La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro. 
Questo è il nostro fondamento, questa è la traccia. 

Con pacatezza e senso di democrazia lo grideremo [o meglio, l'hanno gridato] a Cagliari, questo è [è stato] Leggendo metropolitano. 


A. di Cosimo (Bronzino), Allegoria della Felicità, olio su rame, 1564, Firenze, Galleria degli Uffiz

martedì 7 giugno 2016

Muhammad Alì, eroe

Oltre a questo bell'articolo di Crosetti, se volete saperne di più, ecco la sua vita in otto storie



Muhammad Alì, quel ciclope furioso e gentile che faceva finta di essere cattivo

di Maurizio Crosetti

da «La Repubblica», 4 giugno 2016

FORSE bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all'America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l'amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro.
 
Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.
 
Lo zio lo chiamava ancora Cassius Clay perché non gli riconosceva il valore simbolico, ma lui mica votava comunista come papà. Invece, papà aveva capito bene il senso di quel ciclope furioso e gentile: il signor campione Muhammad Alì aveva mandato a quel paese la guerra del Vietnam e il presidente degli Stati Uniti, e per questo bisognava tifare solo per i suoi guantoni. Erano un segno di libertà per tutti, anche per gli operai di Settimo Torinese e Crotone, Scampia e Taranto, non soltanto per i neri americani e africani. Alì combatteva per tutti gli oppressi: dunque, per una volta si poteva restare alzati la notte e vederlo fare a pugni in tivù contro il nero venduto al potere, cioè Foreman. La prima veglia era stata per lo sbarco sulla Luna. La seconda per Italia-Germania. La terza, per quella battaglia nella giungla. Ecco, per capire davvero chi è morto l'altra notte (morto? ma figuriamoci) bisogna proprio tener conto dello spessore assoluto della storia che si andava vivendo, e raccontando allora. C'erano, in quel tempo memorabile, solo personaggi epici: il comandante Neil Armstrong, Gigi Riva, Pelè e Muhammad Alì. Per forza, poi, da grande ti avrebbero mandato al liceo classico. Altro che Odisseo e Socrate, i grandi della storia noi li vivevamo tutti i giorni, Omero metteva solo le didascalie.
 
Prese un sacco di pugni per cinque round. Il venduto Foreman lo stava gonfiando come una zampogna. Ma lui niente, lui sempre in piedi a pigliare in giro quell'altro. Mi deludi, George. Non sai fare di meglio? Sei diventato debole, amico. Sei stanco? E Foreman picchiava come un pazzo, sprecando così ogni energia. Lo zio però pensava che al prossimo cazzotto ben dato, Alì sarebbe finito al tappeto. Invece papà era sicuro del contrario, i suoi occhi dicevano "stai tranquillo, figlio mio, alla fine i giusti vincono sempre". All'ottava ripresa, infatti, Mohammad tirò un cartone dell'altro mondo al venduto che vacillò e andò a terra come morto. E Alì lo guardava cadere, stava per colpire ancora Foreman ma non lo fece, trattenne il guantone, sapeva che non ci sarebbe stato bisogno di niente di più, forse non voleva sfigurare il volto del nemico. Con quel pugno fantastico lo aveva già umiliato abbastanza, e si stava riprendendo tutto: il titolo mondiale, la gloria, l'orgoglio, un pezzo del suo passato e l'amore del mondo intero e dell'umanità: tutta, senza eccezioni. A parte lo zio.
 
E poi ci fu quell'altra sera. Aspettavamo l'ultimo tedoforo nello stadio di Atlanta e quando comparve Alì, quando realizzammo che non era una visione mistica ma era invece tutto vero, ci sentimmo esattamente dentro la storia, quella da raccontare più ai nipoti che ai lettori. La torcia tremante nel pugno stretto di Muhammad Alì: eppure nulla era stato più fermo e più nitido, più esatto e definitivo, mai.
 
La mano era la stessa dell'autografo, cinque anni prima. Alì a Torino per una manifestazione dell'Uisp, l'enorme silenzio quando lui entrò nella Reggia di Venaria. Barcollava e taceva. Poi gli misero sotto il naso dei cartoncini da firmare e Alì sedette assorto come un bimbo delle elementari: la mano guidava lentissimamente la penna che solcava la carta come un aratro. Veniva voglia di dirgli "scusi Alì, veramente, ci perdoni, siamo dei coglioni a farle fare questo sforzo immane, è lo stesso, lasci stare, non importa" e invece niente, il trofeo d'inchiostro si andava componendo sul foglio e sta ancora lì, appeso al muro, solo un po' sbiadito.
 
E poi i libri, certamente. Gli articoli, alcuni bellissimi. Gianni Minà, Emanuela Audisio. E poi "The fight" di Norman Mailer, tradotto chissà perché "La sfida" da Einaudi, un romanzo e non solo un reportage: la penna era la stessa che aveva raccontato il Vietnam e l'epopea dei primi astronauti. Ai ragazzi delle scuole di giornalismo forse basterebbe dare da leggere Mailer.
 
Ecco perché Muhammad Alì è stato, semplicemente, il più grande atleta di tutti i tempi. Non solo per le vittorie, quelle le hanno ottenute anche Coppi e Carl Lewis, Federer e Michael Jordan, Maradona e Nuvolari. Alì è stato il più grande nel rapporto tra immenso ingombro sportivo e gigantesca valenza sociale, umana, culturale e politica. Nessuno come lui, in questo. Ovunque sia lo zio, ora sarà d'accordo pure lui.