Coronavirus, Boccaccio preannuncia nel Decameron il nostro presente
Testimone oculare della peste che colpì Firenze nel 1348, racconta le inutili barriere, la rimozione cieca, la folle spensieratezza. E una disumanità che oggi per fortuna non c’è
Paolo di Stefano, dal «Corriere della sera» del 15 marzo 2020
Con la peste nera del 1348,
Giovanni Boccaccio vede morire a Firenze la matrigna Bice, lo zio Vanni e
suo padre Boccaccino, restando solo con Iacopo, il fratello minore, di
otto o nove anni. Se ne vanno anche alcuni suoi cari amici: i poeti
Matteo Frescobaldi e Franceschino degli Albizzi e lo storico Giovanni
Villani.
La «mortifera pestilenza» (che Boccaccio non chiama mai «peste» ma solo con delle perifrasi) diventa la cornice del Decameron,
il suo capolavoro, la cui stesura sarebbe cominciata in quello stesso
anno per concludersi nel 1350. Secondo quanto si legge nella cornice del
libro, Boccaccio ha assistito allo spettacolo della peste: «Il che, se
dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto…». I cronisti
raccontano che l’epidemia, scatenata da un focolaio orientale e dilagata
nelle città portuali europee, sarebbe approdata a Firenze, già afflitta
da una profonda crisi economica e politica, in primavera per dileguarsi
in ottobre-novembre. Nell’arco di cinque anni, dal 1347 al 1352, la
pandemia si estese dal Mediterraneo alla Scandinavia e ai Balcani,
uccidendo almeno un terzo della popolazione europea.
Come tutti sappiamo, nell’Introduzione alla prima giornata,
Boccaccio dà conto dell’«orrido cominciamento» su cui si fonda il libro
e che funge da pretesto per giungere al «bellissimo piano e
dilettevole» delle novelle: un’«onesta brigata» di dieci giovani (sette
ragazze e tre ragazzi) fugge dalla città per riparare in una villa di
campagna, dove per trascorrere il tempo e farsi compagnia, per dieci
giorni, ciascuno racconterà una novella al giorno. Il Decameron
ha un duplice scopo: l’intrattenimento piacevole e la morale, ma
intanto Boccaccio racconta con precisione, da testimone oculare, le
condizioni della città. Che, non appena si rivela la minaccia e non
avendo effetto alcun provvedimento umano, viene ripulita di tutte le sue
«immondizie» e chiusa: «vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo».
Avrebbero capito ben presto, come ci insegna oggi il Covid-19,
che le dogane comunque non fermano i virus. Vengono resi pubblici
«molti consigli» utili a conservare la sanità ed evitare il contagio, ma
neppure le preghiere e le processioni danno i risultati sperati. In
primavera la peste «orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in
miracolosa maniera, a dimostrare». Dove il «miracolosa» sta per
straordinaria. Non è difficile constatare che passano i secoli ma le
reazioni e le misure sono sempre quelle.
I sintomi mortali sono diversi da quelli orientali:
non sangue da naso, ma «gavoccioli», rigonfiamenti sotto l’inguine e
sotto le ascelle, alcuni cresciuti come mele di media grandezza, altri
come uova. I bubboni cominciano poi a moltiplicarsi manifestandosi in
ogni parte del corpo e cominciando a «permutare in macchie nere e
livide». Intanto tutti i cittadini diventano medici e scienziati: ognuno
dice la sua e ognuno fa come vuole, visto che i consigli dei
«medicanti» non portavano gran profitto.
E quando descrive il contagio della peste nera 1348,
Boccaccio potrebbe parlare del Coronavirus 2020: «E fu questa
pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per
lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altrimenti che faccia il
fuoco a le cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate».
Ma nel «comunicare», cioè nel diffondersi della contaminazione,
si manifesta un male ancora maggiore. Prosegue Boccaccio: «ché non
solamente il parlare o l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o
cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra
cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale
infermità transportare».
Niente amuchina? Niente amuchina.
Non si parla di disinfettanti. Ma la metafora del fuoco
(dell’«appiccarsi da uno a altro») è eterna: l’immagine dei fiammiferi
che circola su WhatsApp in questi giorni lo dimostra.
Una scenetta cittadina raccapricciante è quella dei due maiali che,
girando per strada, si avventano sugli stracci infettati di un malato e
nel giro di poche ore, tra contorsioni indicibili, cadono in terra
morti. La paura suggerisce di «schifare gli infermi»?
Non basta, e così qualcuno comincia a pensare di aggirare il flagello cambiando
abitudine e comportamenti: vivere con moderazione e rinunciare alle
cose superflue e magari, senza nessun decreto governativo, radunarsi in
piccoli gruppi e decidere di ritirarsi in casa: «e fatta lor piccola
brigata, da ogni altra separati viveano, in quelle case ricogliendosi e
racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio,
dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni
lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori,
di morte o d’infermi, alcuna novella sentire…».
Dunque ritirarsi nelle proprie dimore a televisori spenti per
non sentire le cattive notizie, evitando gli eccessi ma concedendosi
qualche moderato piacere di gola e qualche canto in comune. Altri invece
esageravano, convinti che gozzovigliare e godersela ridendo e
divertendosi in compagnia fosse il modo migliore per vincere il male: in
pratica ignorandolo.
Chi pensasse che la movida, gli assembramenti serali in
barba al coronavirus, lo shopping sfrenato, gli happy hour, i pub pieni
degli ultimi week end fossero un’esclusiva demente del nostro tempo
sovreccitato, legga il Decameron. Troverà esattamente nel 1348 ciò che
la tv trasmetteva sabato scorso: «il giorno e la notte ora a quella
taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura…».
Tante analogie. E qualche fortunata differenza se
è vero, come racconta Boccaccio, che la peste nera condusse a una tale
disperazione e a un tale spavento che le donne abbandonavano gli uomini
malati al loro destino e viceversa i mariti abbandonavano le mogli, il
fratello abbandonava il fratello, la sorella abbandonava la sorella, lo
zio il nipote, persino i genitori abbandonavano i figlio quasi che non
fossero loro. Ciò che rimase fu la carità di pochi e la cupidigia dei
servitori che speravano di spillare gli ultimi «salari» ai loro padroni.
Quando la «ferocità della pistolenza» cominciò a crescere,
persino i funerali presero a scarseggiare: non lacrime, non preti, non
ceri. Ci si curava degli esseri umani che morivano esattamente come ci
si sarebbe curati delle capre, perché quello era ormai divenuto «il
naturale corso delle cose».