venerdì 20 gennaio 2017

Questioni per il 2017

Gli snodi cruciali dell'anno, e forse del decennio - almeno - sono questi: ecologia e migrazioni. A cui certo molti altri si ricollegano: digitale, educazione, informazione, globalizzazione, pace. Due begli articoli, perciò, per iniziare.

Analfabeti di stagioni e di luoghi

Editoriale de «il manifesto», 20 gennaio 2017


Si intitolava Una coscienza di stagione e di luogo una preziosa conferenza che Fritjof Capra, nel 1997 tenne all’aperto nell’Edible Schoolyard, il “cortile commestibile” dell’Università di Berkeley. Si individuava come indispensabile per la sopravvivenza di tutti una ecoalfabetizzazione di massa, «la coltivazione di una coscienza di stagione e di luogo».

Della stagione noi non ci rendiamo conto, se non in occasione di catastrofi, quando ci ammaliamo, quando invecchiamo, quando la pioggia travolge gli argini dei torrenti, quando la neve abbatte effimere anche se sontuose costruzioni.

Ciò comporta, oltre tutto, un enorme problema pedagogico: negli spazi artificiali in cui li parcheggiamo, in quelli metropolitani, i bambini non sanno più riconoscere, ma soprattutto vivere, il ciclo vitale e temporale di un organismo, il ciclo di nascita, crescita, maturazione, declino, morte, e poi la nuova crescita della generazione successiva legato all’alternarsi del caldo e del freddo, dell’estate e dell’inverno.

Non hanno insomma più la struttura mentale della stagione, una struttura del ciclo e anche del limite. I sistemi metropolitani, modulati su quelli industriali, innaturali e contro Natura, hanno invece fatto acquisire, in base al pregiudizio che tutte le cose debbano crescere ed espandersi all’infinito, una struttura senza scansioni temporali, senza adattamenti temporali, senza incertezze e dissipazioni e perciò senza vere precauzioni .

È una struttura che ha influito sul senso del tempo ma anche dello spazio che non è più un luogo, ovvero uno spazio che è funzionale ma anche simbolico, e in cui l’uomo per abitare deve conseguire anche un senso di identità e di appartenenza, accumulare memoria e bellezza e armonia e relazioni di comunità e perfino un senso del sacro.

Il sacro è stato abolito nella struttura mentale moderna e certo nelle tante Facoltà per archistar si irridono (con ovvie eccezioni) quei riti magici fatti da antiche religioni e comunità non solo per propiziarsi lo spazio, ma per trasformarlo da spazio selvaggio a luogo civilizzato secondo una razionalità.

In quei riti c’era anche infatti una profonda essenza di scienza naturale finalizzata alla prevenzione e quindi rivolti ad indagare se erano adatti a quella specifica costruzione o città, quello specifico clima, quel movimento del sole, quelle specifiche condizioni del suolo, oltre alla vicinanza all’acqua e alla presenza di vegetazione.

Riti che davano un limite ed un principio di responsabilità all’abitare dell’uomo, al suo costruire, dicendogli continuamente, ossessivamente, che non era padrone, che ogni presa di possesso dello spazio non poteva essere avulsa del conoscere, curare, armonizzare.

Forte della coscienza di stagione e di luogo, la coscienza tragica dell’ecologia, invita perciò, sempre come Cassandra inascoltata, a verificare da dove venga la distruzione, a verificare se non è stato il caso ma proprio il desiderio di Paride a causare la sciagura.

A verificare cioè se le catastrofi naturali siano proprio naturali, o siano il frutto di un atto umano scellerato, la conseguenza del senso mancato della stagione e del luogo. Invitano a vedere (come del resto farà la magistratura) se in quell’albergo dove si promettevano tutte le stelle del benessere artificiale, non sia venuto meno proprio al primo patto, alla prima condizione vera del benessere che è la filiazione, il rispetto, la coscienza dei limiti che l’uomo figlio deve avere nei confronti della Natura.



Fermare il flusso dei profughi è impossibile
di Guido Viale  

Fermare il flusso dei profughi che vogliono raggiungere l’Europa dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma questo significa aggredirne le cause: guerre, deterioramento ambientale provocato dai cambiamenti climatici e dalla rapina delle risorse locali, miseria e sfruttamento delle popolazioni.

Ci vogliono molte più risorse di quelle che l’Unione europea è disposta a sborsare per indurre gli Stati di origine o di transito dei profughi a trattenerli o a riprenderseli. Ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità. L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita. Ma che vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali che li devastano: le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.
 

Ma c’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Non certo le popolazioni rimaste là: se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando.

Le forze che possono promuovere iniziative del genere sono le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto coloro che sono fuggiti da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo.
 

Tutti comunque conoscono i loro territori e le loro comunità di origine molto meglio di qualsiasi cooperante europeo. Adeguatamente supportate, non manca certo loro la capacità di individuare le soluzioni per ristabilire la pace, riqualificare il territorio, ricostituire le comunità dei loro paesi. La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà.
 

Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti nel tessuto sociale e valorizzati per il contributo che possono dare alla soluzione dei problemi che li hanno spinti a emigrare o a fuggire è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.
 

Ma non è tutto. L’Europa dovrà confrontarsi in forme sempre più acute con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento.
 

Bistrattare profughi al loro arrivo o trattare chi è già insediato tra noi come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità di profughi e migranti già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.
 

Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan) se non vengono soddisfatte le loro pretese, ogni volta più pesanti e umilianti per tutta l’Europa.

Considerazioni che valgono per tutti i paesi con cui il Governo italiano ha siglato o vuole siglare accordi del genere. Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…
 

Autorità, politici e media non spiegano che cosa significa riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile. Intanto costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.
 

Ma che succede nei paesi dove si vorrebbe rispedire gli esseri umani da fermare sul bagnasciuga dell’Africa o del Medioriente? Saperlo non è difficile e chi finge di ignorarlo se ne rende corresponsabile. Succede che i morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo.

E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.

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