martedì 31 gennaio 2017

Romolo Trump

Imperdibile articolo di Maurizio Bettini sulla Repubblica di oggi, su Donald Trump e sul concetto di straniero e cittadino. 

Quella lezione dell'antica Roma
di MAURIZIO BETTINI   
«La Repubblica», 31 gennaio 2017 (c.m.c.)

Come si sa i quattro nonni dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non erano nati in America, ma in Europa. Di conseguenza il fatto che fra i primi provvedimenti presi da un presidente nipote di immigrati ci sia proprio un blocco dell’immigrazione suona paradossale. Tanto più se questo avviene in un paese come gli Stati Uniti nel quale, come in questi giorni sempre più spesso si ripete, tutti gli abitanti sono in definitiva degli immigrati o discendenti di immigrati. I bostoniani, che vantano come antenati i protestanti inglesi guidati da John Winthrop, di per sé non sono diversi dai latinos appena approdati alle periferie di Los Angeles: vengono comunque tutti “da fuori”.

Chi è dunque il “vero” americano, quello dell’America first, che ha il diritto di vivere sicuro dentro i “suoi” confini? Difficile rispondere a questa domanda. Forse qualcuno potrebbe sostenere che i “veri” americani sono in realtà solo i nativi che i coloni europei sterminarono o chiusero nelle riserve. Se non fosse, però, che anche loro sono giunti là dove ora si trovano venendo ugualmente “da fuori”.

Apache e Navaho, per esempio, ossia le popolazioni che vivono nel sud ovest degli Stati Uniti, provengono in realtà dall’Alaska; e dopo un viaggio di qualche migliaio di chilometri si sono stanziati nei territori attuali più o meno nel periodo in cui Colombo sbarcava nel “nuovo” continente. Tutto questo per dire che la risposta alla domanda «chi è il vero x?» — quando a x si sostituisce un sostantivo come “americano”, “italiano”, “francese” … — può ricevere solo risposte di tipo cinico o opportunistico se si è in campagna elettorale; oppure risposte di tipo più meditatamente giuridico se il discorso riguarda non il problema dell’etnia, della cultura o della religione, ma quello della cittadinanza. Esiste però una terza possibilità: che a questa domanda si dia una risposta di tipo mitologico.

È quanto fecero gli ateniesi nel quinto secolo a. c., dando vita a quel mito che porta il nome di “autoctonia”: secondo il quale gli abitanti dell’Attica sarebbero stati direttamente generati dalla terra su cui abitavano, senza alcuna mediazione. Questa mitica razza vantava naturalmente anche i propri antenati: si trattava di re che avevano per metà corpo di serpente, cioè l’animale più ctonio, più terrestre che si conosca. I cittadini ateniesi del V secolo, insomma, si presentavano come i “veri” ateniesi per il semplice motivo che quella terra non era stata mai abitata da nessuno fino al momento in cui essa stessa, la terra, si era decisa a partorire i propri abitanti.

L’autoctonia ateniese era ovviamente una favola, non solo perché la terra non ha mai partorito nessuno, ma perché anche gli abitanti dell’Attica erano venuti “da fuori” in tempi più o meno recenti. Questo mito però venne abilmente propalato attraverso i mezzi mediatici di allora, soprattutto discorsi pubblici e immagini che circolavano dipinte sui vasi; e l’immagine degli ateniesi, che in quegli anni combattevano contro gli spartani, ne uscì rafforzata, dentro e fuori le mura della città.

Atteggiandosi a “nati dalla terra”, infatti, essi potevano accreditarsi come uomini di cui non era possibile mettere in discussione la eugéneia, la “buona nascita”, visto che non si erano mai mischiati con altri popoli; una stirpe che amava come nessun’altra la propria patria (come si potrebbe non amare la propria “madre”?) e che soprattutto aveva raggiunto la civiltà da sola e prima di tutti gli altri. Attraverso il mito dell’autoctonia gli ateniesi erano dunque riusciti a dare una risposta alla difficile domanda «chi è il vero x?». Nello stesso tempo, però, essi avevano risolto una volta per tutte anche il problema degli immigrati e della loro posizione nella città.

Vero ateniese, infatti, poteva essere considerato solo il figlio di genitori entrambi ateniesi, ossia chi per via di sangue discendesse da quella stessa terra su cui abitava. Di conseguenza costui era anche l’unico a poter usufruire della qualifica di cittadino e l’unico che aveva il diritto di sedere in assemblea: luogo magico della democrazia ateniese. Tutti gli altri, gli stranieri che pur vivevano o lavoravano in città, ne erano esclusi. Né avrebbero mai potuto aspirare a diventare cittadini di Atene — non erano mica “autoctoni”.

Mito per mito, però, ce n’è un altro che ha ugualmente cercato di rispondere alla domanda «chi è il vero x?»: ma che preferiamo di molto a quello escogitato dagli ateniesi. Ci viene da Roma. Si narrava infatti che Romolo, al momento di fondare la Città, non solo avesse raccolto a questo scopo uomini provenienti da ogni regione; ma che ciascuno di costoro avesse portato con sé una zolla della terra da cui proveniva. Scavata dunque la fossa di fondazione, destinata a costituire il centro della futura città, ciascuno di questi uomini vi gettò dentro la propria zolla di terra, mischiandola con tutte le altre. Secondo il mito romano, dunque, la città di Roma era sorta su una terra non solo “mista” di molte altre terre, ma creata dagli stessi futuri abitanti della città. Al contrario di Atene, insomma, a Roma non era stata la terra a partorire gli uomini, ma gli uomini a fabbricare la propria terra.

Alla domanda «chi è il vero romano», dunque, il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso. Penso che questo mito meriterebbe di essere diffuso e fatto conoscere con tutti i mezzi mediatici che oggi abbiamo a disposizione: soprattutto là dove assieme ai fili spinati si moltiplicano gli appelli alle radici e il discorso pubblico si articola ossessivamente attorno al pronome “noi”. Questo mito ci aiuterebbe perlomeno a pensare a siriani, iracheni, sudanesi o libici in fila di fronte al blocco degli immigration points: ciascuno con una zolla di terra nella valigia.

lunedì 23 gennaio 2017

Ivano Dionigi
Quel mondo classico che svela l’inganno nascosto nelle parole
«la Repubblica», 23 gennaio 2017

Novum per i classici era sempre qualcosa di dirompente e traumatico: “nova” la terra che gli Argonauti cercavano con la loro spedizione sacrilega; “novus” l’uomo che per primo nella propria famiglia ricopriva una magistratura; “nova” la religione cristiana che in nome della fede interiore rifiutava i riti esteriori della “religio civilis”. 
Quale è il nostro “novum”? Non quello che campeggia su copertine e classifiche; non quello delle periodiche proposte politiche che non riescono a interessare né giovani né vecchi; non quello dell’amministrazione della cosa pubblica esibita, più che gestita, a colpi di “like”; non quello della gridata e nominalistica discontinuità; e neppure quello della improvvisata originalità, che, come dice Berenson, «è propria degli incapaci». Queste sono novità che alimentano la cronaca, non il nuovo che fa la storia.
Novum è ben altro: è ciò che imprevedibilmente e irreversibilmente segna il destino individuale e collettivo. E se non siamo vigili, lo vediamo non in faccia, ma di spalle, quando se n’è già andato.
Il novum possiamo coglierlo nell’avvento ormai conclamato di due “barbari”, nelle due rivoluzioni che rischiano di mettere in ginocchio il vecchio ordine politico, economico, etico. La rivoluzione sociale, ovvero l’arrivo di nuovi popoli in cerca di quella giustizia che noi abbiamo rimosso dal nostro lessico.
La rivoluzione tecnologica, ovvero l’impero dei media digitali, che porta con sé inedite possibilità ma anche altrettante domande. Questo passaggio dall’analogico al digitale ha segnato - paradossale contrappasso - un salto dalla socialità del noi alla solitudine dell’io.
Per conoscere questo novum abbiamo bisogno di politica e di cultura, di statisti (perché diciamo leader?) e di maestri. Figure fuori moda che preferiscono la verità alla consolazione.
Nel Protagora di Platone leggiamo che gli uomini morivano perché si facevano la guerra, perché «conoscevano soltanto la tecnica ( demiourgiké téchne) ma non l’arte della politica ( politiké téchne) », la sola che può salvare la vita degli uomini. Cicerone, facendo l’esegesi di quel mito platonico, esalta la parola politica per eccellenza: res publica, “la cosa di tutti”; in opposizione alla res privata, “la cosa del singolo”. Grazie al governo della res publica, il civis - leggiamo nel Sogno di Scipione - si assicura «un posto riservato in cielo». Perché la politica è la responsabilità più nobile. Messaggio pressoché incomprensibile per noi, arrendevoli al linguaggio sin troppo facile e contronatura dell’antipolitica. Contronatura: perché noi “animali politici” siamo destinati a edificare la polis, e, dice Aristotele, «chi vive fuori dalla comunità civile è o bestia o dio».
L’università, una delle istituzioni più prestigiose e più credibili del Paese, ha oggi una responsabilità non riducibile a codificata ed esangue mission. Noi professori siamo chiamati a professare ( profiteri) l’etica della competenza e l’etica del rigore intellettuale e morale, che non si concilia con la doxa rumorosa, la chiacchiera imperante, il facile consenso.
Due i compiti tra i principali e più urgenti. In primo luogo quello di ricordare la bellezza, la prerogativa e il potere della parola: quel logos che ci distingue dagli animali ( a- loga) e che, nella relazione con l’altro, si fa ponte: dia- logos appunto. Oggi la parola rischia di non esserci amica: ridotta a strumento, slogan, merce, finisce per assumere una sciagurata autonomia dalla realtà e di logorarsi in una crisi di entropia. Come lamentava Frontone, un oratore del II sec. d.C., ci accontentiamo delle parole che tro- viamo «per via»: le parole «ovvie » ( obvia).
Abbiamo bisogno di una ecologia linguistica, che segni la differenza tra “vocaboli” e “parole”; abbiamo bisogno di una pentecoste laica. Perdura l’eco del lamento di Sallustio: «Abbiamo smarrito i veri nomi delle cose»; e ci suona sinistramente familiare l’atto di accusa di un personaggio dell’Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “impero” ( imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” ( pax) ». Uso mai dismesso quello di creare neologismi che sottendono false equivalenze e usi mistificati: pensiamo ai nostri “flessibilità” per disoccupazione, “economia sommersa” per lavoro nero, “guerra preventiva” per aggressione. La stessa parola “trasparenza” nella sua ipertrofia regolamentare non è forse il sintomo di quella cattiva coscienza che s’illude di creare la virtù per decreto?
Nel tempo della retorica totale – dove i colpi di Stato si fanno a suon di parole prima ancora che di armi –, la vera tragedia è che i padroni del linguaggio mandino in esilio i cittadini della parola. In questa prospettiva la filo-logia, «la cura e l’amore per la parola», trascende il significato di disciplina specialistica e si eleva a impegno severo e nobile di ogni uomo che non intenda né censurare né censurarsi. Altro compito dell’università: promuovere un’alleanza tra humanities e tecnologie. A chi sostiene che la scienza e le tecnologie sono destinate a scalzare le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà replicare che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere dell’ars respondendi, della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere dell’ars interrogandi, della domanda. Arte più difficile e decisiva, perché ha la responsabilità di ricapitolare e interpellare gli snodi del pensiero: vale ricordare che il paradigma della dimenticanza, che alimenta la tecnica, non può escludere quello della memoria che alimenta le idee; che la cultura deve governare la politica, l’economia e la tecnica; che l’oblio del passato e l’affidamento esclusivo agli algoritmi ci consegnano alla monocultura iper e microspecialistica, quando non addirittura a una sorta di monoteismo tecnologico; che alla scuola spetta formare cittadini digitali consapevoli, come ha fatto con i cittadini agricoli, industriali, elettronici. Ricordare col Petrarca che la condizione dell’uomo europeo è quella di «rivolgere lo sguardo contemporaneamente avanti e indietro» ( simul ante retroque prospiciens); che la verità si sottrae al presente e si tende tra “il già” e “il non ancora”; che tramite, memoria, eredità di ieri sono punti di riferimento indispensabili per conoscere e riconoscere i “barbari” di oggi. Proprio i classici possono soccorrerci e aprirci il tempio del tempo: perché – come ha ricordato Umberto Eco – ci allungano la vita; perché – come ci ha illuminati Osip Mandel’stam– il classico deve essere sentito non come ciò che è già stato ma «ciò che ancora deve essere». Perché i classici, al pari della scienza e della tecnologia, hanno il futuro nel sangue.

venerdì 20 gennaio 2017

Questioni per il 2017

Gli snodi cruciali dell'anno, e forse del decennio - almeno - sono questi: ecologia e migrazioni. A cui certo molti altri si ricollegano: digitale, educazione, informazione, globalizzazione, pace. Due begli articoli, perciò, per iniziare.

Analfabeti di stagioni e di luoghi

Editoriale de «il manifesto», 20 gennaio 2017


Si intitolava Una coscienza di stagione e di luogo una preziosa conferenza che Fritjof Capra, nel 1997 tenne all’aperto nell’Edible Schoolyard, il “cortile commestibile” dell’Università di Berkeley. Si individuava come indispensabile per la sopravvivenza di tutti una ecoalfabetizzazione di massa, «la coltivazione di una coscienza di stagione e di luogo».

Della stagione noi non ci rendiamo conto, se non in occasione di catastrofi, quando ci ammaliamo, quando invecchiamo, quando la pioggia travolge gli argini dei torrenti, quando la neve abbatte effimere anche se sontuose costruzioni.

Ciò comporta, oltre tutto, un enorme problema pedagogico: negli spazi artificiali in cui li parcheggiamo, in quelli metropolitani, i bambini non sanno più riconoscere, ma soprattutto vivere, il ciclo vitale e temporale di un organismo, il ciclo di nascita, crescita, maturazione, declino, morte, e poi la nuova crescita della generazione successiva legato all’alternarsi del caldo e del freddo, dell’estate e dell’inverno.

Non hanno insomma più la struttura mentale della stagione, una struttura del ciclo e anche del limite. I sistemi metropolitani, modulati su quelli industriali, innaturali e contro Natura, hanno invece fatto acquisire, in base al pregiudizio che tutte le cose debbano crescere ed espandersi all’infinito, una struttura senza scansioni temporali, senza adattamenti temporali, senza incertezze e dissipazioni e perciò senza vere precauzioni .

È una struttura che ha influito sul senso del tempo ma anche dello spazio che non è più un luogo, ovvero uno spazio che è funzionale ma anche simbolico, e in cui l’uomo per abitare deve conseguire anche un senso di identità e di appartenenza, accumulare memoria e bellezza e armonia e relazioni di comunità e perfino un senso del sacro.

Il sacro è stato abolito nella struttura mentale moderna e certo nelle tante Facoltà per archistar si irridono (con ovvie eccezioni) quei riti magici fatti da antiche religioni e comunità non solo per propiziarsi lo spazio, ma per trasformarlo da spazio selvaggio a luogo civilizzato secondo una razionalità.

In quei riti c’era anche infatti una profonda essenza di scienza naturale finalizzata alla prevenzione e quindi rivolti ad indagare se erano adatti a quella specifica costruzione o città, quello specifico clima, quel movimento del sole, quelle specifiche condizioni del suolo, oltre alla vicinanza all’acqua e alla presenza di vegetazione.

Riti che davano un limite ed un principio di responsabilità all’abitare dell’uomo, al suo costruire, dicendogli continuamente, ossessivamente, che non era padrone, che ogni presa di possesso dello spazio non poteva essere avulsa del conoscere, curare, armonizzare.

Forte della coscienza di stagione e di luogo, la coscienza tragica dell’ecologia, invita perciò, sempre come Cassandra inascoltata, a verificare da dove venga la distruzione, a verificare se non è stato il caso ma proprio il desiderio di Paride a causare la sciagura.

A verificare cioè se le catastrofi naturali siano proprio naturali, o siano il frutto di un atto umano scellerato, la conseguenza del senso mancato della stagione e del luogo. Invitano a vedere (come del resto farà la magistratura) se in quell’albergo dove si promettevano tutte le stelle del benessere artificiale, non sia venuto meno proprio al primo patto, alla prima condizione vera del benessere che è la filiazione, il rispetto, la coscienza dei limiti che l’uomo figlio deve avere nei confronti della Natura.



Fermare il flusso dei profughi è impossibile
di Guido Viale  

Fermare il flusso dei profughi che vogliono raggiungere l’Europa dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma questo significa aggredirne le cause: guerre, deterioramento ambientale provocato dai cambiamenti climatici e dalla rapina delle risorse locali, miseria e sfruttamento delle popolazioni.

Ci vogliono molte più risorse di quelle che l’Unione europea è disposta a sborsare per indurre gli Stati di origine o di transito dei profughi a trattenerli o a riprenderseli. Ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità. L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita. Ma che vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali che li devastano: le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.
 

Ma c’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Non certo le popolazioni rimaste là: se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando.

Le forze che possono promuovere iniziative del genere sono le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto coloro che sono fuggiti da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo.
 

Tutti comunque conoscono i loro territori e le loro comunità di origine molto meglio di qualsiasi cooperante europeo. Adeguatamente supportate, non manca certo loro la capacità di individuare le soluzioni per ristabilire la pace, riqualificare il territorio, ricostituire le comunità dei loro paesi. La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà.
 

Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti nel tessuto sociale e valorizzati per il contributo che possono dare alla soluzione dei problemi che li hanno spinti a emigrare o a fuggire è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.
 

Ma non è tutto. L’Europa dovrà confrontarsi in forme sempre più acute con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento.
 

Bistrattare profughi al loro arrivo o trattare chi è già insediato tra noi come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità di profughi e migranti già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.
 

Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan) se non vengono soddisfatte le loro pretese, ogni volta più pesanti e umilianti per tutta l’Europa.

Considerazioni che valgono per tutti i paesi con cui il Governo italiano ha siglato o vuole siglare accordi del genere. Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…
 

Autorità, politici e media non spiegano che cosa significa riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile. Intanto costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.
 

Ma che succede nei paesi dove si vorrebbe rispedire gli esseri umani da fermare sul bagnasciuga dell’Africa o del Medioriente? Saperlo non è difficile e chi finge di ignorarlo se ne rende corresponsabile. Succede che i morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo.

E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.