Gli snodi cruciali dell'anno, e forse del decennio - almeno - sono questi: ecologia e migrazioni. A cui certo molti altri si ricollegano: digitale, educazione, informazione, globalizzazione, pace. Due begli articoli, perciò, per iniziare.
Analfabeti di stagioni e di luoghi
Editoriale
de «il manifesto», 20 gennaio 2017
Si
intitolava Una coscienza di stagione e di luogo una
preziosa conferenza che Fritjof Capra, nel 1997 tenne all’aperto nell’Edible
Schoolyard, il “cortile commestibile” dell’Università di Berkeley. Si
individuava come indispensabile per la sopravvivenza di tutti una
ecoalfabetizzazione di massa, «la coltivazione di una coscienza di stagione e
di luogo».
Della stagione noi non ci rendiamo conto, se non
in occasione di catastrofi, quando ci ammaliamo, quando invecchiamo, quando la
pioggia travolge gli argini dei torrenti, quando la neve abbatte effimere anche
se sontuose costruzioni.
Ciò comporta, oltre tutto, un enorme problema
pedagogico: negli spazi artificiali in cui li parcheggiamo, in quelli
metropolitani, i bambini non sanno più riconoscere, ma soprattutto vivere, il
ciclo vitale e temporale di un organismo, il ciclo di nascita, crescita,
maturazione, declino, morte, e poi la nuova crescita della generazione
successiva legato all’alternarsi del caldo e del freddo, dell’estate e dell’inverno.
Non hanno insomma più la struttura mentale della
stagione, una struttura del ciclo e anche del limite. I sistemi metropolitani,
modulati su quelli industriali, innaturali e contro Natura, hanno invece fatto
acquisire, in base al pregiudizio che tutte le cose debbano crescere ed
espandersi all’infinito, una struttura senza scansioni temporali, senza
adattamenti temporali, senza incertezze e dissipazioni e perciò senza vere
precauzioni .
È una struttura che ha influito sul senso del
tempo ma anche dello spazio che non è più un luogo, ovvero uno spazio che è
funzionale ma anche simbolico, e in cui l’uomo per abitare deve conseguire
anche un senso di identità e di appartenenza, accumulare memoria e bellezza e
armonia e relazioni di comunità e perfino un senso del sacro.
Il sacro è stato abolito nella struttura mentale
moderna e certo nelle tante Facoltà per archistar si irridono (con ovvie
eccezioni) quei riti magici fatti da antiche religioni e comunità non solo per
propiziarsi lo spazio, ma per trasformarlo da spazio selvaggio a luogo
civilizzato secondo una razionalità.
In quei riti c’era anche infatti una profonda
essenza di scienza naturale finalizzata alla prevenzione e quindi rivolti ad
indagare se erano adatti a quella specifica costruzione o città, quello
specifico clima, quel movimento del sole, quelle specifiche condizioni del
suolo, oltre alla vicinanza all’acqua e alla presenza di vegetazione.
Riti che davano un limite ed un principio di
responsabilità all’abitare dell’uomo, al suo costruire, dicendogli
continuamente, ossessivamente, che non era padrone, che ogni presa di possesso
dello spazio non poteva essere avulsa del conoscere, curare, armonizzare.
Forte della coscienza di stagione e di luogo, la
coscienza tragica dell’ecologia, invita perciò, sempre come Cassandra
inascoltata, a verificare da dove venga la distruzione, a verificare se non è
stato il caso ma proprio il desiderio di Paride a causare la sciagura.
A verificare cioè se le catastrofi naturali
siano proprio naturali, o siano il frutto di un atto umano scellerato, la
conseguenza del senso mancato della stagione e del luogo. Invitano a vedere
(come del resto farà la magistratura) se in quell’albergo dove si promettevano
tutte le stelle del benessere artificiale, non sia venuto meno proprio al primo
patto, alla prima condizione vera del benessere che è la filiazione, il
rispetto, la coscienza dei limiti che l’uomo figlio deve avere nei confronti
della Natura.
Fermare il flusso dei profughi è
impossibile
di Guido Viale
Fermare
il flusso dei profughi che vogliono raggiungere l’Europa dall’Africa e dal
Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile
contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma questo significa aggredirne le
cause: guerre, deterioramento ambientale provocato dai cambiamenti climatici e
dalla rapina delle risorse locali, miseria e sfruttamento delle popolazioni.
Ci vogliono molte più risorse di quelle che l’Unione
europea è disposta a sborsare per indurre gli Stati di origine o di transito
dei profughi a trattenerli o a riprenderseli. Ma i soldi sono il meno. Ci
vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre
fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano
territori e comunità. L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration
compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno
ritmo la vendita. Ma che vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle
multinazionali che li devastano: le due che nomina sono Eni ed Edf, la società
petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società
elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio
estratto schiavizzando il Niger.
Ma c’è un problema ancora più a monte: chi può
promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo
territorio? Non certo le popolazioni rimaste là: se ne avessero la capacità e
la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e
devastazioni le stanno alimentando.
Le forze che possono promuovere iniziative del
genere sono le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che
sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro,
soprattutto coloro che sono fuggiti da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei
loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono
pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di
arrivo.
Tutti comunque conoscono i loro territori e le
loro comunità di origine molto meglio di qualsiasi cooperante europeo.
Adeguatamente supportate, non manca certo loro la capacità di individuare le
soluzioni per ristabilire la pace, riqualificare il territorio, ricostituire le
comunità dei loro paesi. La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un
riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta
messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà.
Per questo il modo in cui profughi e migranti
vengono accolti, inseriti nel tessuto sociale e valorizzati per il contributo
che possono dare alla soluzione dei problemi che li hanno spinti a emigrare o a
fuggire è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa
affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è
circondata.
Ma non è tutto. L’Europa dovrà confrontarsi in
forme sempre più acute con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta
i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo
interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa
rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire,
rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento.
Bistrattare profughi al loro arrivo o trattare
chi è già insediato tra noi come un corpo estraneo o un nemico significa
promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada
da seguire passa per le comunità di profughi e migranti già presenti o in
arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e
atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno
imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio
di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le
mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro
brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente
attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.
Altre strade non ci sono. Chi prospetta i
respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo –
presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore
di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il
prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare
anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta
questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di
concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità
locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un
ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi
minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo
Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan) se non vengono soddisfatte le loro
pretese, ogni volta più pesanti e umilianti per tutta l’Europa.
Considerazioni che valgono per tutti i paesi con
cui il Governo italiano ha siglato o vuole siglare accordi del genere. Nel
migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada
del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…
Autorità, politici e media non spiegano che cosa
significa riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che
sia possibile. Intanto costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso
dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di
quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da
rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce
il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare
il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la
lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per
strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla
prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello
a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.
Ma che succede nei paesi dove si vorrebbe
rispedire gli esseri umani da fermare sul bagnasciuga dell’Africa o del
Medioriente? Saperlo non è difficile e chi finge di ignorarlo se ne rende
corresponsabile. Succede che i morti nell’attraversamento del deserto sono più
di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le
donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di
stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati
in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati
e umiliati in ogni modo.
E’ questa la soluzione? Quella finale?
Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti
ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che
delicato.