mercoledì 11 aprile 2018

Le nostre guerre sporche

Da Sarajevo a Douma quelle sporche guerre sporche


AMEER ALHALBI VIA GETTY IMAGES - 2016

Dal 1945 nessuna grande potenza ha ufficialmente aperto un conflitto con un’altra nazione Ma almeno 40 Paesi hanno vissuto una “dirty war”. E sono morte milioni di persone
di Vittorio Zucconi (La Repubblica, 9 aprile 2018)

WASHINGTON «Ci sarà – cinguetta al mattino di sabato il presidente americano Trump su Twitter rivolgendosi a Putin, ad Assad, all’Iran – un grande prezzo da pagare» per l’ennesima strage di innocenti gassati in Siria, ma nessuno, neppure Trump, dice o sa “che cosa” possa essere questo prezzo.
Sappiamo invece, con assoluta certezza, “chi” lo pagherà: le stesse donne, gli stessi uomini, gli stessi bambini che da decenni e a decine di milioni hanno pagato con la loro vita le “sporche guerre” che insanguinano il mondo.
La Siria, dove dipanare il gomitolo dei “buoni e cattivi” , fra mercenari, droni, potenze straniere, sette, alleanze di oggi che diventano le ostilità di domani è impossibile, è soltanto l’ultima e la più visibile evoluzione della guerra nell’età nucleare.
Dall’agosto del 1945, quando la prima bomba A polverizzò Hiroshima e poi dal 1949, quando Stalin esplose il suo primo ordigno nucleare sigillando l’equilibrio del reciproco annientamento, nessuna grande potenza ha più dichiarato guerra a nessun’altra nazione. Le guerre, legalmente parlando, non ci sono più.
Ma sotto la copertura dell’ombrello atomico, le “dirty wars” sono cresciute e si sono diffuse come funghi velenosi. Potenze maggiori e minori, grandi interessi economici, despoti e odi regionali o religiosi hanno continuato a combattersi in guerre dette “a bassa intensità”, “asimmetriche”, o “proxy war”, guerre combattute per procura, da terzi per conto dei principali. E la Siria, dove sono stati risucchiati Russia, Usa, Iran, Turchia, Arabia Saudita ed Israele, è soltanto l’apoteosi più sporca del sudiciume bellico sgorgato dalla fogna della Guerra Fredda.
Quante siano state le vittime di queste piccole guerre micidiali è un conto che nessuno può fare, perché ai bambini asfissiati dalle bombe di Assad o alle donne disintegrate nelle bombe esplose nei mercati di Baghdad andrebbero aggiunti i morti dell’indotto delle guerre: profughi, malnutriti, malati, migranti della disperazione annegati o stroncati dalla diaspora della fame. Qualche ricercatore parla di almeno 30 milioni di caduti, un totale da conflitto mondiale, quale di fatto questa collana di “sporche guerre” rappresenta. E se fare un censimento di questo cimitero globale è impossibile, è invece possibile fare l’appello di tutte le nazioni dove sono state, o sono ancora, combattute. Occorre pazienza a leggere tutta la lista, ma va letta, per capire l’enormità di questa piccola grande guerra mondiale che si trascina, si arresta e si riproduce dalla fine del Secondo Conflitto. Partiamo: Afghanistan. Angola. Argentina. Bolivia. Cambogia. Chad. Cile. Colombia. Congo (Zaire). Corea. Cuba. Congo. Repubblica dominicana. El Salvador. Timor est. Etiopia. Filippine. Georgia. Grenada. Grecia. Guatemala. Haiti. Honduras. Indonesia. Iran. Iraq. Israele/Palestinesi. Libia. Laos. Nepal. Nicaragua. Pakistan. Panama. Siria. Sierra Leone. Somalia. Sudan. Ucraina. Ungheria. Vietnam. Yemen. Ex Yugoslavia.
Sono almeno 40, un quinto del totale rappresentato all’Onu, le nazioni a essere state travolte da guerre che definiamo per ipocrisia “sporche”, perché devono la loro definizione alla sanguinosa opacità delle ragioni e delle intenzioni. Le mosse delle grandi potenze come gli Stati Uniti, responsabili e promotori di tanti fra questi conflitti sono a volte visibili, come in Ucraina dove Putin annette territori per allontanare dalla Russia i confini della sfera euro-americana e i suoi missili antimissile. In altri casi, come nella tragedia siriana, sono avviluppati in manovre di interessi locali. Il mondo che si chiama civile si scuote soltanto quando le schegge di queste guerre lo raggiungono attraverso quel terrorismo detto “jihadista” che proprio il mondo “civile” scatenò con i suoi interventi e invasioni: dall’Urss nell’Afghanistan del 1979, all’Iraq del 2003, disintegrato da George W. Bush per “esportare la democrazia”.
Per questo, le fanfaronate via Twitter di Trump lasciano tutte le parti completamente indifferenti, come già quella vuota minaccia verso Assad pronunciata da Obama, quando avvertì il dittatore siriano di «non superare la linea rossa» dell’uso di armi chimiche: linea che superò impunemente.
Proprio Trump, 48 ore prima di minacciare prezzi terribili, aveva ripetuto che gli Stati Uniti se ne sarebbero andati dalla Siria.
Nessuno ha paura del lupo cattivo. La storia delle sporche guerre accese o manipolate da forze esterne non lascia spazio ad alcun ottimismo o speranza. Dal prototipo della sudicia guerra civile nella Grecia fra il 1946 e il 1949 pilotata da Stalin e Truman al mattatoio siriano di oggi, le piccole guerre calde sono il tributo di sangue che il resto del mondo ha pagato per evitare una nuova grande guerra, alimentando quel complesso militar industriale che deve trovare clienti.
Se il resto del mondo non fa niente per fermarle è perché conviene ai potenti: a Douma, sotto le bombe di Assad, si muore asfissiati anche per noi.



PS: per chi si fosse perso la notizia, e pure il link all'interno dell'articolo: https://www.ilpost.it/2018/04/08/bombardamento-chimico-douma/

Ancora Dante, in politica


Luca Signorelli, particolare tratto dalle Storie degli ultimi giorni (1499-1502) cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto, affresco

Dante, De Monarchia, III, XV, 7-18

L'ineffabile Provvidenza ha posto dunque innanzi al l'uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, che consiste nell'esplicazione della propria specifica facoltà, ed è simboleggiata nel paradiso terrestre, e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, e costituisce il paradiso celeste; ad essa quella facoltà specifica dell'uomo non può elevarsi senza il soccorso della luce divina. A queste [due] beatitudini, come a [due] fini diversi, occorre giungere con mezzi diversi. Alla prima infatti perveniamo per mezzo degli insegnamenti filosofici, purché li mettiamo in pratica operando secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda invece perveniamo per mezzo degli insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche della fede, speranza e carità. Sebbene quel fine e quei mezzi [naturali] ci siano stati additati dalla ragione umana, quale si è manifestata a noi compiutamente attraverso i filosofi, e sebbene quel fine e quei mezzi [soprannaturali] ci siano stati indicati dallo Spirito Santo, che ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria attraverso i profeti, gli scrittori ispirati, Gesù Cristo, figlio di Dio a lui coeterno, ed i suoi discepoli, tuttavia la cupidigia umana indurrebbe a dimenticarli, se gli uomini, come cavalli spinti dalla loro bestialità a percorrere vie traverse, non fossero trattenuti sulla retta strada «con la briglia e con il freno». Per questo l'uomo ebbe bisogno di una duplice guida, in corrispondenza del duplice fine, cioè del Sommo Pontefice, per condurre il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell'Imperatore, per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto [della felicità terrena] nessuno o pochi, ed anche questi con eccessiva difficoltà, potrebbero approdare, se il genere umano — sedati i flutti della cupidigia esposta ad ogni seduzione — non riposasse libero nella tranquillità della pace, il governatore del mondo, detto Principe Romano, deve tendere con tutte le sue forze a questo scopo, cioè a far sì che in questa aiuola umana si possa vivere nella libertà e nella pace. E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della disposizione propria dei moti celesti, affinché le utili iniziative [imperiali] di libertà e di pace possano trovare applicazione adatta ai luoghi e ai tempi, è necessario che quel governatore del mondo sia stabilito da chi ha una visione complessiva ed immediata della disposizione globale dei cieli. Ora questi è soltanto Colui che ha preordinato tale disposizione come mezzo per poter subordinare provvidenzialmente tutte le cose ai suoi piani. Ma se è così, solo Dio elegge, egli solo conferma, non avendo altri superiori a sé. Dal che si può ricavare questa ulteriore conseguenza, che né gli elettori attuali, né quelli che, in qualunque modo, sono stati detti «elettori» si possono chiamare con tale titolo, ma piuttosto vanno considerati come «annunciatori della scelta provvidenziale di Dio». Onde avviene che talvolta coloro, cui è stata conferita questa carica di annunciatori, sono travagliati da discordie, dovute al fatto che tutti o alcuni di essi, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non riescono ad individuare chiaramente l'elezione fatta da Dio. Così dunque risulta evidente che l'autorità del monarca temporale gli deriva, senza intermediario alcuno, dalla fonte stessa di ogni autorità, fonte che, pur essendo tutta raccolta nella roccaforte della sua semplicità, si espande in molteplici ruscelli per la sovrabbondanza della sua bontà.

Mi pare ormai di aver raggiunto la meta che mi ero proposto. Difatti è stata dimostrata la vera soluzione della questione se al buon ordinamento del mondo sia necessario l'ufficio del Monarca, dell'altra questione se il popolo romano si sia appropriato di diritto dell'Impero, ed infine dell'ultima questione se l'autorità del monarca dipenda immediatamente da Dio o da qualcun altro. La soluzione data all'ultima questione non va però intesa in senso così stretto, da escludere che il Principe romano non sottostia in qualcosa al romano Pontefice, poiché la felicità di questa vita mortale è ordinata, in qualche modo, alla felicità immortale.
Cesare pertanto usi verso Pietro di quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre, affinché, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa illuminare con maggior efficacia la terra, al cui governo è stato preposto solo da Colui che è il reggitore di tutte le cose spirituali e temporali.  [Traduzione di Pio Gaja, UTET, Torino 1996]



Luciano Canfora


L'utopia moderna di Dante

Immaginava un impero universale come garanzia di pace 

«Corriere della Sera», 16/10/2013)



La Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all'Indice dei libri proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant'Uffizio nel 1559. La ragione di ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava — col suo trattato politico — contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità. Pur consapevoli del rischio di frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a volta regnanti. I quali — in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di poteri vastissimi — possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta. Come vediamo ancora oggi.
Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l'impero (si passi l'espressione metaforica). Nel primo libro di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace universale che ne è il portato, il fine supremo: l'attuazione e il pieno dispiegamento dell'intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico. Nel secondo libro rivendica, come già nel Convivio, al popolo romano il diritto all'impero. Nel terzo affronta il tema più delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del «Vicario». E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all'intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell'uomo — cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia — è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l'uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l'impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede.
Questo impianto teorico spiega bene perché a Giustiniano, cioè all'imperatore cesaropapista per eccellenza, venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l'esaltante elogio di Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l'idea di una pace universale conseguente all'unico governo universale. Tale governo però viene concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi non veda in tale concezione l'utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all'arroganza di singole potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.


Sul metodo deduttivo 
Sul sesto canto dell'Inferno e il pensiero politico di Dante

Go Nagai, La divina commedia, 3 voll., d/books, 2007 (ed. or. Dante Shinkyoku, 1994)