lunedì 11 luglio 2016

Nuovi umanisti (ovvero, mestieri inaspettati e a portata di mano)

Sto finalmente chiudendo gli esami di maturità al Liceo «Alberti» di Cagliari.

A occhio e croce il 90% dei candidati si iscriverà (o vorrebbe iscriversi) in una delle opzioni della facoltà di Ingegneria. Gli altri tenteranno Medicina. Pubblico questo pezzo del solito «Domenica - Sole24Ore» perchè è importante ricordarsi che si può essere al passo coi tempi anche facendo scelte diverse, infinitamente diverse e infinitamente più libere e creative; perchè di tutti questi ingegneri finiremo per non farcene nulla, mentre di umanisti intelligenti e critici - anche nei confronti delle nuove tecnologie, che pure sono fondamentali - c'è e ci sarà sempre tanto bisogno.

Uomini non banali: padre Roberto Busa (1913-2011)

  Umanisti scann(erizz)ati

di Lorenzo Tomasin (7 luglio 2016)

C'era una volta un gesuita vicentino, padre Roberto Busa (nato nel 1913, è morto da non molto, a novantasette anni), che bussava alle porte degli esperti di informatica e di quella che all’epoca si chiamava cibernetica presentando il suo progetto di ricerca, rivoluzionario per l’epoca: l’idea di applicare mezzi tecnici e computazionali allo studio dei testi che gli interessavano, cioè gli Opera Omnia di Tommaso d’Aquino, troppo estesi per essere letti e studiati con i metodi tradizionali e “manuali” della ricerca testuale. Padre Busa è considerato oggi uno dei benemeriti fondatori della linguistica computazionale e in generale dell’informatica umanistica, cioè – almeno nella sua configurazione iniziale – di una branca degli studi nella quale contenuti e metodi della cultura umanistica si servono di mezzi informatici per realizzare i propri obiettivi.


Al giorno d’oggi, fa informatica umanistica chiunque interroghi la grande biblioteca virtuale messa a punto da Google con una campagna di massiccia digitalizzazione dei libri di biblioteche sparse in tutto il mondo, e resa mirabilmente accessibile a chiunque in qualsiasi angolo del pianeta raggiunto da una connessione a internet. A livello ancora più semplice, anzi, sta facendo informatica umanistica persino l’autore di queste righe, impiegando un comune programma di videoscrittura per la confezione di un testo, con tutte le funzioni di interrogazione, riordino e messa in forma che a quel programma sono collegate. Vista così, si tratta in fondo di un’esperienza quotidiana, seppure scalare, per qualunque persona di cultura. Se dall’amatore ci si volge al professionista, che studi le opere di Melantone o la poesia elisabettiana, il pensiero di Leopardi o l’archeologia ittita, il ricercatore delle scienze umane è, come qualsiasi scienziato, un utente abituale e spesso appassionato degli strumenti informatici, dei quali ovviamente non può fare a meno, tanto che sarebbe ormai impossibile individuare un àmbito del sapere che non sia utilmente pervaso dalle tecniche prodotte dalla ricerca applicata, ingegneristica.



C’è però una novità negli sviluppi più recenti delle scienze umane, che rischia di essere sottovalutata o fraintesa dai molti entusiasti fautori del connubio tra ingegneria informatica e Lettere – oggi ben più diffusi e rumorosi rispetto ai tempi di padre Busa, che come molti gesuiti ha fatto scuola ben al di là di quanto fosse ragionevolmente prevedibile (o forse auspicabile). La novità consiste nel progressivo mutamento per cui dall’essere concepite come mezzi al servizio di discipline e di metodi elaborati attraverso i secoli, le risorse tecnologiche e digitali sono divenute in molti casi obiettivi o elementi centrali della ricerca di base, e in particolare di parti sempre più ampie di quella umanistica. Cioè concretamente della storia, della letteratura, della filologia, della storia dell’arte... Le conseguenze del progressivo mutamento di prospettiva per cui da strumenti (in quanto prodotti tipici della tecnica) i ritrovati informatici si sono mutati nei fini di una ricerca tipicamente non applicata come quella umanistica, si scorgono bene nello sviluppo impetuoso che le digital humanities, come le si chiama oggi, hanno avuto negli ultimi anni in quanto disciplina autonoma e trasversale, sempre più svettante nel panorama delle humanities in genere.I riflessi più concreti di tale spostamento di asse si osservano nei criteri con cui la ricerca umanistica viene finanziata da molti enti pubblici che dovrebbero vedere in essa uno dei più tipici destinatari d’un investimento libero da preoccupazioni immediatamente applicative o addirittura commerciali.

È noto che sia a livello europeo sia a livello di molte singole nazioni, la ricerca scientifica ha oggi tanto maggiori probabilità di intercettare fondi pubblici quanto più forte è la sua componente informatico-tecnologica, persino nel campo delle scienze umane. Cosicché un progetto che, mettiamo, aumenti di pochissimo la conoscenza dei dati storici o la loro interpretazione, ma potenzî la loro interazione con innovativi strumenti tecnologici ha maggiori probabilità di successo di un progetto altamente innovativo sul piano storiografico, ma irrelato da particolari sviluppi tecnici. E un progetto di ricerca basato, poniamo, sul trattamento dei big data o sulla visualizzazione virtuale di contenuti letterari o artistici, ha buone chances di essere valutato come un prodotto della ricerca umanistica per via dei suoi contenuti, i quali tuttavia sono null’altro che pretestuosi banchi di prova per la messa a punto di tecnologie trasferibili indifferentemente all’indagine di flussi commerciali o alla compilazione di nuovi videogiochi. Ecco così assurgere al rango di progetti di ricerca scientifica un programma che renda percorribile, anzi navigabile, un luogo del passato in forme simili a Google street view, o un software capace di ricostruire automaticamente, in base alle ricorrenze di nomi e parole-chiave, le relazioni tra i personaggi di un ponderoso romanzo russo, naturalmente senza bisogno di leggerlo. Gli esempi non sono, purtroppo, fittizi.

Siamo nei distretti di una ricerca umanistica divenuta caricaturale, che stentando ad affermare l’autonoma dignità e la vitale importanza dei suoi contenuti s’attacca pigramente al carro della tecnologia tentando d’affermare l’attualità e la spendibilità dei propri contenuti. Inutile ricordare che il ragionamento corretto dovrebbe essere l’opposto: quello per cui la ricerca applicata sarebbe piuttosto tenuta a giustificare la propria utilità strumentale rispetto a saperi per definizione privi di un’immediata applicazione, ma (meglio: e perciò) scientificamente fondamentali. Per questa via, committenti (scienziati, umanisti) ed esecutori (tecnici) si scambiano i ruoli, e l’agenda di molte discipline viene riscritta, con discontinua nozione dei loro metodi e obiettivi, da informatici fattisi cultori di varia umanità. A pratiche antiche come la lettura, l’analisi, la discussione, si preferiscono tecniche quali la scansione, la visualizzazione, l’automazione, che relegano alla fruizione meramente aneddotica contenuti del tutto intercambiabili, scelti solo a motivo della loro gradevolezza, popolarità o mediatica attrattività. Trasformati, insomma, da fini in mezzi occasionali. Pur evitando di cadere in indebite generalizzazioni o in eccessi di reazione, si tratta pur sempre di una tendenza della quale è bene stare in guardia.